È la parola «nucleare» che provoca ansia. Ha
qualcosa di misterioso e di potente che non riusciamo a introdurre
con disinvoltura nel vocabolario del nostro linguaggio quotidiano.
«Nucleare » evoca più facilmente la distruzione che la costruzione:
le generazioni del dopoguerra sono cresciute sotto la minaccia reale
-non immaginaria-dell’annientamento della
bomba atomica. E ne hanno anche conosciuto gli effetti, proprio sul
Giappone, di un ordigno nucleare, piccolo se paragonato a quelli
odierni. Abbiamo studiato la Storia di questi ultimi 60 anni e
abbiamo capito che, grazie alla consapevolezza della distruzione totale che avrebbe provocato
l’atomica, i potenti della terra hanno risparmiato all’umanità una
guerra tragica.
Poi ci sono le catastrofi delle centrali
nucleari, come per esempio quella di Chernobyl e, forse, quella che sta
colpendo il nord del Giappone. Insomma, come può la sola parola
«nucleare» non provocare timore, ansia a chi non è scienziato, cioè
alla stragrande maggioranza di noi? Non abbiamo nessuna dimestichezza
con quella misteriosa parola, cosa che invece abbiamo con la parola
«elettricità».
Se qualcuno mi chiedesse di spiegare esattamente
cosa succede quando schiaccio l’interruttore della luce e si accende la
lampadina, mi arrampicherei sugli specchi. Comunque, il sapere in
modo approssimativo che quel gesto del dito indice che accende la
lampada è il momento finale di un complesso meccanismo che si chiama
«energia elettrica », non disturba la mia immaginazione, come penso
quella di moltissime altre persone. Così come non ci preoccupa la
combustione di benzina, gasolio e affini che, oltre a darci l’energia
elettrica,muove le automobili, produce il riscaldamento delle case. Gli
esperti ci dicono che provoca malattie terribili, superiori nel numero a
quelle causate dalle fughe radioattive. Noi, però, continuiamo a
usare la macchina, a bruciare idrocarburi senza troppe preoccupazioni.
Eventualmente ci conforta la consapevolezza che il progresso
scientifico ha il suo prezzo.
Credo sia doveroso fidarsi delle competenze degli
scienziati, i quali ci informano che l’energia nucleare non è
pericolosa, se non in casi estremi. Ma sono proprio questi casi estremi quelli che
alimentano le nostre paure. È inutile fingere: ci impensierisce molto
meno la catastrofe ambientale provocata dalla fuoriuscita nel mare di
tonnellate di petrolio che una fuga radioattiva.
Il petrolio che inquina l’ambiente ci rammarica;
l’energia nucleare libera nell’aria ci terrorizza. A farci pensare così
sarà la nostra ignoranza, ma non si dimentichi che abbiamo alle spalle
una Storia e una politica che sugli effetti devastanti dell’energia
nucleare ci hanno catechizzato per anni. Certo,c’è un problema di
informazione, di ridefinizione culturale della parola «nucleare»,
tanto più necessarie quanto più veniamo a conoscenza di disastri come
quello in Giappone che dimostrano la perico-losità del nucleare.
Abbiamo però giornali e telegiornali che fanno a ga-ra nell’incuterci
paura, dandoci notizie minuto per minuto di quel reattore che è
esploso, di quell’altro che sta per esplodere, della gente evacuata e
di quella rimasta con le mascherine sulla faccia che non servono a
niente. Come si fa a non aver paura del nucleare?
Poi, come se non bastasse, noi italiani abbiamo la vocazione di dividerci su tutto in due partiti: dai patrizi e plebei romani ai guelfi e ghibellini, ai nuclearisti e antinuclearisti. E così aumentano perplessità e insicurezze: ci si schiera, ma non facendo riferimento alla cultura scientifica, bensì al buonsenso, ai sentimenti, che sono pessimi consiglieri quando si tratta di capire realmente come stiano le cose. Sul nucleare c’è stato in Italia un referendum, condizionato a quei tempi dalla catastrofe di Chernobyl; adesso si riaffaccia tutta la problematica nuclearista e verrà sicuramente condizionata dagli eventi catastrofici giapponesi. Sarebbe il caso di evitare dibattiti pro e contro e di ricevere invece spiegazioni vere che tuttavia non abbiano la supponenza di non tener conto del nostro sentimento comune e del modo in cui è stato condizionato in questi ultimi 60 anni dalla Storia e dalla politica.
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