Attacco a Tripoli, Gheddafi reagisce I rivoltosi falliscono la «spallata»

TripoliUn paio di soldati in divisa verde avanzano guardinghi, su un lato della strada, puntando i kalashnikov alla ricerca di qualche ribelle. La furia degli scontri ha divelto pali e cosparso la via principale, che porta alla moschea, di detriti di ogni genere. Alle nostre spalle tre blindati dell'esercito presidiano l'incrocio principale, con militari in assetto di combattimento che ci lasciano incredibilmente passare, quasi con un sorriso sulle labbra. I manifestanti che hanno dato battaglia nel sobborgo di Tajoura, alle porte della capitale, sono asserragliati nella moschea.
La sognata insurrezione nella capitale libica, che avrebbe dato una spallata forse definitiva al regime di Gheddafi, non è riuscita. Nonostante gli scontri nella centralissima piazza Algeria e la battaglia di Tajoura, nessun quartiere o sobborgo di Tripoli è caduto in mano agli zuwar, i ribelli. Da ieri, però, il colonnello e altre 15 personalità libiche sono ricercate dall’Interpol in tutto il mondo.
L’odore acre dei lacrimogeni irritanti, che bruciano terribilmente gli occhi ci avvolge. Circa un migliaio di libici sono usciti dalla moschea Al Kabir di Tajoura, alla fine della preghiera di pranzo del venerdì, srotolando striscioni con gli slogan contro il regime. Il corteo, apparentemente disarmato, marciava verso la piazza principale, ma un fitto lancio di lacrimogeni l’ha fermato. Subito dopo si sono sentiti numerosi spari. I muthazahirin, i manifestanti, che gridavano «Gheddafi nemico di Allah» hanno dovuto indietreggiare verso il luogo di culto. Nella terra di nessuno un giovane di Tajoura si offre di aiutarci a raggiungere i rivoltosi. Alle nostre spalle piombano un paio di uomini armati scesi da un fuoristrada scoperto. Ci puntano i kalashnikov urlando che non dobbiamo fotografare o usare i telefonini e riempiono di botte il povero ragazzo.
Il più cattivo, con il dito sul grilletto, si piazza sul sedile posteriore e ordina al tassista di tornare a tutta velocità al posto di blocco con i blindati dell’esercito. Il centro di Tajoura è completamente circondato dai militari. Si sentono altre raffiche di mitra. Passiamo un brutto quarto d’ora: ci sequestrano subito la memoria della macchina fotografica obbligandoci, armi in pugno, a restare in auto. Davanti a noi fermano due ragazzi su una Polo bianca. Li fanno inginocchiare e li portano via. Anche dei giornalisti arabi, che avevano raggiunto la moschea e quelli dell’agenzia Reuter, arrivati per ultimi, sono stati fermati. Poi il permesso delle autorità libiche e la solita carta degli italiani brava gente allenta la tensione. L’unico timore è quando arrivano sul nostro cellulare le telefonate dei rivoltosi di Al Zawia e come sottofondo si sentono i rumori di una battaglia cruenta. Le forze governative hanno attaccato ripetutamente l’enclave ribelle a una quarantina di chilometri da Tripoli. «Stanno usando armi pesanti, ma noi resistiamo» raccontano gli zuwar. Al Jazeera lancia la notizia di 50 morti, ma fonti mediche parlano di 13 vittime. La tv libica sostiene che la città è stata ripresa. I ribelli smentiscono pur ammettendo che è morto il colonnello Hussein Darbuk, l’ufficiale che aveva disertato, armi e bagagli, cacciando i governativi.
Dopo un’ora il tipaccio, con le infradito, che ci ha puntato il kalashnikov in faccia dichiara: «Mafi mushkilà» (nessun problema) e ci lascia andare. Davanti alla moschea di piazza Algeria si scontrano per la prima volta le opposte fazioni nel cuore della capitale. I muthazahirin, anti Gheddafi, escono dalla preghiera gridando slogan contro il regime. Li attende un numero doppio di sostenitori del colonnello e parte una fitta sassaiola. Poi uno sgherro in borghese spara in aria con il kalaschnikov e il mini corteo di protesta si disperde. Nei quartieri caldi come Fashlun e Suq al Giuma, dove una settimana fa è scoppiata la guerriglia urbana non succede nulla. La gente è stupita di vedere due giornalisti sfuggiti ai controlli del ministero dell'Informazione. «Siamo tutti contro Gheddafi in questa zona- sussurra sotto voce un professore - ma abbiamo paura. Se i nostri figli muoiono durante le proteste dobbiamo seppellirli di nascosto».
La spallata a Gheddafi nella capitale non è riuscita.

Fin dalla sera prima era stato bloccato internet e ieri mattina le guide governative non volevano farci uscire dall’albergo: «La sicurezza ci ha informato che girano macchine di terroristi pronti a sparare per le strade, quando vedono una telecamera, per far pensare che pure la capitale è nel caos».
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