Cultura e Spettacoli

Un atto d’accusa contro l’industria del cinema

Ambientato nella Los Angeles medio-alta tra il ’51 e il ’59, «Hollywoodland» non risparmia le critiche per due ore, ma nel finale assolve

Maurizio Cabona

È ancora presto per giudicare questa Mostra, che è più della cinefilia che del cinema, per ora. Infatti, dopo il film d’apertura, The Black Dahlia di Brian Da Palma, ambientato nei bassifondi della Hollywood del 1946-1947, ieri era in concorso Hollywoodland di Allen Coulter, ambientato nella Hollywood medio-alta del 1951-1959. Due film sulla gente che fa cinema, sempre inviata nei grossi festival, fino a formare un sottogenere del noir, intriso talora del malcelato orgoglio sintetizzato nel detto: «È un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo». O anche: «Vivere a Los Angeles può rendervi celebri, morirvi vi renderà certamente celebri». Specie se morirvi giovani e ammazzati.
The Black Dahlia l’ha confermato: s’ispira infatti al caso di Betty Short, attricetta porno il cui assassino la fece franca nel 1947; in compenso, nel 1988 ha trovato un James Ellroy per dedicarle un romanzo e nel 2006 un De Palma per dedicarle un film. Hollywoodland propone un altro delitto insoluto: George Reeves invece era un notissimo attore tv, prima incarnazione di Superman, con un vasto e dignitosissimo passato di comprimario cinematografico (inclusi Via col vento e Da qui all’eternità). Ma Coulter non l’avrebbe preso come soggetto del suo film, oggi, se nel 1959 Reeves fosse morto di sincope. Apparente scopo del film, dove Ben Affleck interpreta Reeves, è presentare le indagini di un investigatore privato (Adrien Brody) su tale morte per colpo di pistola, una pistola senza impronte, con tre proiettili in meno e senza un’impronta, eppure la polizia decise che era suicidio.
Un film d’accusa contro Hollywood, coerente con gli annunci di Mostra «autoriale» del suo direttore, Müller? No. Hollywoodland accusa per due ore solo per assolvere negli ultimi dieci minuti, che sbiadiscono le ipotesi di assassinio commissionato dall’allora direttore della Mgm (interpretato da Bob Hoskins), insolitamente furioso perché il cuore della moglie (Diana Lane) era in frantumi, dopo l’abbandono da parte di Reeves, suo amante dal 1951. Coulter, che viene dalla tv (Sex and the City, Soprano, ecc.), e lo sceneggiatore Paul Bernbaum sono furbi. Lusingano i critici - che detestano l’industria del cinema americano tanto quanto ne amano i prodotti - e vellicano gli adulti (negli Stati Uniti il film sarà vietato ai minori), salvo dare al film un finale rassicurante su Hollywood.
Perché un regista al primo film come Coulter, che vuol girarne altri, deve (far) credere che i dirigenti degli studios sono migliori di quanto si creda. Comunque Hollywoodland è superiore a The Black Dahlia, che invece è quasi coerente nella denuncia.

Ma quasi mai onestà fa rima con qualità e poi, prima di considerare De Palma un puro, ricordate che i suoi produttori e distributori non stanno più a Hollywood.

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