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"Non è la soluzione". Persino i vegani dicono no alla carne coltivata

Negli ultimi giorni, l'associazione campione di sostenibilità si è esposta ufficialmente contro questa produzione ma non è l'unica realtà a sollevare dubbi. Perplessità anche da Altroconsumo e dal mondo vegano

Immagine da Wikipedia
Immagine da Wikipedia

Il divieto alla produzione di carne coltivata da parte del governo ha scatenato non poche polemiche in queste settimane. Le proteste e l’indignazione provenivano da chi vede il laboratorio come l’unica soluzione alla riduzione del consumo di carne e di conseguenza delle emissioni di CO2 degli allevamenti intensivi. E l’esecutivo Meloni, su questo, è stato spesso tacciato come retrogrado. Non tutti, però, sono d’accordo. Ma non parliamo soltanto di produttori – grandi e piccoli – che devono difendere i loro singoli interessi e la loro economia. Ad opporsi, infatti, c'è pure un'associazione così sensibile ai temi della sostenibilità come Slow Food.

Le critiche di Slow Food alla carne coltivata

Negli ultimi giorni, l’associazione no-profit, dal 1986 impegnata nel salvare produzioni a rischio, ha espresso la sua posizione contraria alla carne coltivata proprio quando il dibatitto sembrava apparentemente placarsi. Il messaggio dell’associazione, che lo scorso anno ha visto il passaggio di consegne del suo storico fondatore Carlo Petrini, è chiaro: “Il problema di un’eccessiva produzione di carne non si risolve passando dagli allevamenti intensivi ai laboratori –. si legge nel Documento di posizione di Slow Food Italia sulla carne coltivata – ma si affronta analizzando con onestà il modello che ha originato questa distorsione e intervenendo per modificarlo radicalmente”. L’associazione, in sostanza, condanna il sistema allevamenti intensivi ma stoppa la soluzione tecnologica per una serie di motivi.

Uno di questi è il rispetto per il legame tra il cibo, il produttore e il luogo di produzione. “Il cibo è cultura, non è un semplice carburante per far funzionare l’organismo, somma algebrica di proteine, grassi e carboidrati – si legge –. Con la carne coltivata si perderebbe definitivamente il legame tra il cibo e il luogo in cui viene prodotto, le conoscenze e la cultura locali, il sapere e le tecniche di lavorazione”.

Oltre al problema culturale, ci sono poi altri discorsi come l’impatto ambientale tutt’altro trascurabile nella produzione in laboratorio: “La coltivazione di carne prevede un minore uso di acqua e terra ed emissioni di gas serra ridotte – fa notare Slow Food –. Ma i bioreattori dove si moltiplicano le cellule staminali richiedono grandi quantitativi d’energia”. Senza considerare poi le accuse ai finanziatori della ricerca, che per l’associazione sarebbero “gli stessi che dominano la filiera della carne” e la poca trasparenza su ciò che contiene la carne coltivata. Molti aspetti della sua produzione infatti non sono ancora noti.

La cautela di Altroconsumo

Slow Food ha detto no, e in altre realtà rimangono perplessità. Altroconsumo, associazione dei consumatori, è particolarmente vigile proprio sul discorso ingredienti. Sul suo sito ha pubblicato una lista di vantaggi e svantaggi di questa tecnologia. Tra i punti critici ci sono la qualità sensoriale delle bistecche e gli interventi che potrebbero venir fatti dall’industria per risolvere il problema sapore e consistenza: “È molto difficile potere riprodurre esattamente tutte le caratteristiche di gusto, odore, consistenza della carne tradizionale, anche se con il tempo si potrà giungere a un risultato sempre più simile all’originale. Come però? – si chiede l’associazione–. Il rischio è che vengano aggiunti aromi e altre sostanze, rendendo di fatto questo tipo di carne un alimento processato”.

Secondo Altroconsumo, poi, rimane qualche perplessità sulla sicurezza alimentare soprattutto sugli effetti a lungo termine del consumo, che ad oggi non si conoscono. Infatti, “per far crescere le cellule in laboratorio vengono utilizzate diverse sostanze come zuccheri, amminoacidi e vitamine, ma anche ormoni e fattori di crescita. Inoltre, nella fase iniziale di coltivazione vengono anche utilizzati antibiotici. Ora, chi è a favore della carne coltivata, ricorda che gli allevamenti animali richiedono l’uso di antibiotici e che quest’uso è correlato al problema dell’antibiotico resistenza. Ma anche la carne coltivata potrebbe incidere su questo aspetto – continua Altroconsumo –. È importante che le autorità preposte all’autorizzazione di questo nuovo cibo (Efsa per l’Europa) verifichino attentamente che queste sostanze non arrivino nel prodotto finito, in modo da garantire la sicurezza dei consumatori”.

Il discorso etico e la posizione di Vegan ok

Tra le questioni sollevate dall’associazione c’è anche il discorso etico. La carne coltivata infatti proviene da cellule animali.Per produrre questa carne viene utilizzato il feto animale e il siero fetale per prelevare le cellule staminali e per nutrirle una volta prelevate – precisa l’associazione dei consumatori –. Sottoprodotti dell’industria della carne che sono in contraddizione con un’innovazione che porta con sé la promessa di essere attenta al benessere animale e all’etica della produzione”.

Per motivi analoghi, nemmeno il mondo vegano non può esprimere totale solidarietà. Vegan ok, che rilascia le certificazioni ai prodotti vegani, ad esempio sostiene – e non è una posizione dell’ultima ora – che questa tecnologia sia utile per ridurre le emissioni. Ma, per quanto sia considerata più etica della macellazione, non può essere convogliata nella loro battaglia. “Non possiamo ignorare quella che è la vera grande pecca di questa tecnologia: per quanto consenta di produrre carne senza macellazione, implica in ogni caso lo sfruttamento animale. Per questo continuiamo a credere che la soluzione più etica, semplice e immediata sia il passaggio a un’alimentazione plant-based 100%.”

Quali sono le alternative?

Come si fa a ridurre in consumo? “La carne coltivata potrà essere, semmai sarà autorizzata, una delle possibilità per ridurre il consumo di carne tradizionale ed essere più sostenibili. Ma non sarà certo l’unica o la principale”, spiega Altroconsumo che suggerisce ai consumatori altre fonti proteiche, come pesce, legumi, uova e formaggi e i burger di origine vegetali. Slowfood che chiude ogni spiraglio alla provetta, invece, si focalizza su tre punti: “Consumiamo meno carne ma da allevamenti sostenibili; riportiamo al centro la fertilità del suolo, il rispetto per gli animali, la tutela della biodiversità dei pascoli; riscopriamo la coltivazione e il consumo dei legumi”. Insomma, non per tutti la carne in laboratorio è l’unica soluzione. E affidarsi a piccoli allevamenti sostenibili vuol dire valorizzare anche la filiera italiana, dove la carne è un’eccellenza.

Sia al palato sia come elemento culturale.

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