Liste d’attesa, reparti in overbooking, ricoveri doppi: l’effetto domino della sanità

Le case di comunità daranno respiro a ospedali e pronto soccorso. Ma solo 50 sono pienamente attive: entro un anno dovranno essere 1.717

Liste d’attesa, reparti in overbooking, ricoveri doppi: l’effetto domino della sanità

Le statistiche sanitarie, dietro a percentuali e grafici, non misurano solo costi, eccellenze e inefficienze. Pesano anche il disagio umano. E nascondono storie di profonda solitudine. Cosa vuol dire, ad esempio, che gli ospedali accumulano ogni anno 2 milioni di giornate di «degenze improprie»? Significa che ci sono persone - soprattutto anziani - che non possono tornare a casa anche se il medico ha autorizzato le dimissioni. Perché non hanno nessuno che si potrà prendere cura di loro, né per aiutarli ad alzarsi dal letto, né per fare la spesa e cucinare. Allora restano in reparto, coccolati con fette biscottate a colazione e con mousse di frutta alla sera. E con quel vocio continuo in corridoio che è mille volte meglio del silenzio assoluto di un appartamento vuoto.

EFFETTO DOMINO

Attorno al tema delle dimissioni rimandate dei pazienti, ruotano vari problemi della sanità: l’assistenza post ospedaliera che non funziona ancora come dovrebbe, i reparti sovraffollati, la mancata prevenzione per prevenire i ricoveri, le liste d’attesa inchiodate. Se non funziona un servizio, a catena, non potranno mai funzionare nemmeno tutti gli altri.

REPARTI IN OVERBOOKING

I reparti di medicina interna, quelli in cui si riversa la metà dei ricoverati (soprattutto anziani e malati cronici), sono al completo: l’86% è in overbooking e denuncia carenze costanti di personali. Lo rileva un’indagine di Fadoi, la federazione dei medici internisti, svolta su 261 strutture in tutte le regioni italiane. Il «tutto esaurito» in reparto significa che spesso i medici si devono arrangiare lasciando i pazienti sulle barelle in corridoio e improvvisando separé per garantire un po’ di privacy. Quelle barelle sono l’immagine finale di un effetto domino che parte dalla carenza di medici di base (sempre più in difficoltà nel seguire i propri pazienti) e che si articola in una rete territoriale e di assistenza domiciliare non ben articolata. «Nelle medicine interne - spiega Francesco Dentali, presidente Fadoi - vengono ricoverati pazienti sempre più complessi che, in alcuni casi, richiedono persino un livello di assistenza pre intensiva. Tuttavia i reparti sono classificati come a bassa intensità di cura e non medio alta come dovrebbe essere. Questo si traduce in una minor dotazione di personale e macchinari».

Se le cose funzionassero, un ricovero su 4 potrebbe essere evitato. Nel 33% dei reparti i letti che si sarebbero potuti liberare sono tra il 10 e il 20% del totale, nel 37% dei casi tra il 21 e il 30%. Non solo: c’è un altro strappo della sanità da risolvere: i doppi ricoveri. L’ultimo rapporto sulle cartelle di dimissioni ospedaliere redatto dal Ministero della Salute presenta un dato sul quale riflettere: dei 5,5 milioni di ricoveri l’anno, il 16% (612mila) è da attribuire a pazienti dimessi e poco dopo nuovamente ricoverati. Non perché si riammalano. Nella maggior parte dei casi si tratta di cronici che, non trovando un’adeguata rete di assistenza territoriale, finiscono per tornare in ospedale anche quando il secondo ricovero lo si sarebbe potuto evitare.

LE CASE DI COMUNITÀ

La vera cerniera tra ospedale e territorio ha un nome: case di comunità, strutture essenziali per fare da cuscinetto ai reparti e per alleggerire l’afflusso al pronto soccorso. Si tratta di una sorta di maxi-ambulatori dove lavoreranno fianco a fianco medici di famiglia, specialisti e professionisti. Accoglieranno sia i pazienti cronici, sia quelli dimessi dall’ospedale, senza quindi sovraccaricare le corsie. I medici ospedalieri, in sostanza, si potranno dedicare meglio alle emergenze. Si calcola che le case di comunità aiuteranno a ridurre i ricoveri del 20% ma finché il sistema non sarà ben oliato sarà difficile.

Per non perdere i fondi del Pnrr, le case di comunità dovranno essere pronte entro un anno. La scadenza è giugno 2026. Saranno 1.717 in tutta Italia ma al momento quelle realmente attive - con un numero adeguato di medici e infermieri - sono 46, meno del 3%. I lavori procedono ma il tempo stringe e non è esattamente rincuorante il rapporto di Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) che, tra le righe, paventa il rischio che alcune case restino «fantasma». Agenas ha fotografato anche lo stato dell’arte degli Ospedali di comunità (Odc) e delle Centrali operative territoriali (Cot), le strutture chiamate a svolgere la funzione di coordinamento della presa in carico della persona e di raccordo tra i servizi socio-sanitari e i professionisti. Nel primo caso la situazione, purtroppo, non è meno allarmante di quella delle Case di comunità (solo 124 ospedali su 568 previsti hanno attivato almeno un servizio). Nel secondo è più rassicurante. Le Centrali pienamente funzionanti e certificate sono infatti ben 642 sui 650 da attivare in totale.

I NODI DEI CONTRATTI

Se manca personale, le case di comunità non funzioneranno mai. Ma i nodi da risolvere sono parecchi, sia sul fronte medici sia sul fronte infermieri. Dall’inizio dell’anno è entrato in vigore il nuovo contratto che rivede il lavoro dei medici di medicina generale sul territorio e introduce il «ruolo unico di assistenza». I medici diventerebbero quindi diretti dipendenti del Sistema nazionale.

I sindacati, Fimmg in testa, si stanno opponendo: «Tale ipotesi verrebbe rifiutata dai giovani medici per la mancanza di attrattività del sistema pubblico e ciò determinerebbe la diffusione di strutture private e di cooperative di medici di famiglia a gettone». Fronte infermieri: basta dire che ogni anno - già così- ce ne sono 10mila in meno. Inoltre uno su 4 è vicino alla pensione e uno su 6 lavora al di fuori del Ssn.

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