
Odio il mare e lo odio in tutte le sue manifestazioni: come liquido, come sfondo di foto Instagram, come luogo in cui la gente si sente in diritto di essere felice e sudata. «Non ti piace il mare?», e ogni volta mi devo giustificare. «Allora ti piace la montagna?», neppure. Come quando ti chiedono «per quale squadra tifi?», nessuna, e restano increduli. «Odio lo sport», ancora più increduli, quasi fossi un alieno.
Torniamo al mare, questa è la stagione del mare, e sto scrivendo a 18 gradi, con una felpina, perché fuori ce ne sono 32 ma io vivo in un habitat con quattro condizionatori. Dunque, il mare. Odio quelli che lo chiamano “il mio posto del cuore” e mettono una foto col filtro caldo, il libro nella borsa che non leggeranno mai (e anche se lo leggono è sempre un libro inutile, non per altro si chiamano “libri da spiaggia”), il cocktail che cadrà nella sabbia, e le gambe rosse con la didascalia “finalmente relax”. Relax dove? Tra le urla dei bambini che si rincorrono col secchiello come se fosse il set di Apocalypse Now? Tra i vicini di asciugamano che si spalmano la crema anche sulle ginocchia pelose e la pancia a quattro centimetri dalla tua faccia e dicendo scemenze che ti entrano nelle orecchie e ti bucano il cervello?
Ci sono quelli che amano lo scoglio, sul serio? Sì, si piazzano sugli scogli, e allora se ti piacciono tanto gli scogli perché non ti fai anche un divano scoglio a casa? Fateci caso: al mare si fanno sempre cose stupide, perfino giochi stupidi. Tipo i racchettoni, chi mai giocherebbe a racchettoni in qualsiasi altro posto? Perché è un gioco da scemi.
Oh, quando mia mamma mi ci portava, mi ci deportava anzi, da bambino. La sabbia è il nemico numero uno, infida, infame, inevitabile, entra ovunque, nel costume, nei piedi, nel pensiero, e anche se ti fai la doccia resta lì. Il sole non è meglio: viene celebrato come una divinità benevola quando è solo un gigantesco forno cancerogeno che cuoce lentamente i corpi dei vacanzieri inconsapevoli, tant’è che sono tutti a spalmarsi di creme protettive, corpi unti e appiccicati e quelle donne nere abbrustolite che non si muovono dal lettino che sembrano salme bruciate. Come sei bianco, mi dicono tutti, sembri una mozzarella. Vai a capire perché vogliono essere tutti neri, quando Michael Jackson ha speso milioni per sbiancarsi, per diventare più bianco di tutti i bianchi.
E poi c’è l’acqua: «guarda, sembra una piscina». Certo, si dice così perché la piscina è meglio del mare, mentre se sei in piscina non dici «guarda, sembra il mare». In piscina vedi le piastrelle, c’è quel piacevole sapore di cloro, e sai che non ci sono pesci, alghe, dentici, meduse, tracine, e nella mia testa (sempre, sistematicamente) lo squalo bianco. Anche se sei in Adriatico. Anche se c’è un pedalò (che barca da sfigati). Anche se ti dicono che non c’è nulla. Non mi fido, Spielberg mi ha convinto fin dall’infanzia, appena vedo il mare sento la musichetta e cerco la pinna del Grande Squalo Bianco.
Io al mare non ci vado, va da sé, non ci sono mai andato davvero, tranne rarissime occasioni di errore sociale o cedimenti relazionali o per portarci mia figlia quando sua mamma non può, e ogni volta è stato un disastro. Una volta ho provato a stendermi, mi è venuto l’eritema. Un’altra volta ho messo un piede in acqua e mi è salita la tachicardia da squalo fantasma. Non è una fobia: è un sistema d’allarme efficiente.
Eppure, la cosa che odio di più sono le persone che amano il mare (voi siete liberissimi di odiare me, e non c’è bisogno che ve lo dica). Quelli che si svegliano alle sette per “prendere posto”, quelli che gridano “Finalmente estate!” come se l’estate non fosse un lungo esperimento sociale su come sopportare l’altro, il caldo, l’odore di crema solare e sudore e chiacchiere imbecilli nello stesso metro quadrato.
Invece, come ho detto, amo la piscina. O almeno l’ho amata, quando ancora facevo i bagni, perché ormai neanche quelli, la guardo e basta. L’idea, l’estetica, la struttura della piscina mi dà pace: le piastrelle, il cloro, il blu geometrico, un luogo razionale, disinfettato, contenuto. Se il mare fosse piastrellato, se fosse pieno di cloro, se non ci fossero pesci o correnti o sabbia o altri esseri viventi, allora forse mi piacerebbe. Ma il mare non è così: è anarchico, caotico, biologico, e pieno di sorprese, e io detesto le sorprese.
Per me la gente si ammassa al mare con la stessa mentalità dei lager, sebbene felici, volontari, entusiasti: si piazzano uno accanto all’altro in un’esibizione collettiva di carne cotta, sudore e mutande da bagno troppo strette. Sudano insieme, si girano insieme, si annusano, si toccano per sbaglio e ridono, come se il contatto umano fosse una cosa bella. Io no. Io voglio distanza, al massimo piastrelle e cloro e amici pochi e scelti.
Non vi sto dire quanto io odi Sapore di sale di Gino Paoli (o Sapore di mare, non so quale sia il titolo e non ho voglia di andarlo a cercare) che canta come se il mare fosse un’epifania esistenziale e non un brodo batterico dove si mescolano bambini che pisciano, madri isteriche, padri tatuati, e anche venditori ambulanti con dieci chili di vestiti e di borse che incedono sotto il sole che forse era meglio stare in Africa. Sapore di mare che hai sulle labbra, sapore di sale che hai sulla pelle, e io no, io sulla pelle avrei solo l’eritema, e sulle palle tutti quelli che postano le loro foto al mare, con la frase “qui si respira” scritta mentre stanno in fila per la granita o per far vedere dove sono: i ricchi in Costa Smeralda, i poveri e radical chic in Puglia, entrambi tristissimi.
D’altra parte dal mare siamo usciti centinaia di milioni di anni fa, quando eravamo pesci, e da allora abbiamo sviluppato le gambe, i polmoni, il linguaggio, la capacità di stare lontani dai luoghi umidi pieni di sabbia e urla. Tornare al mare non è una vacanza: è un passo indietro nell’evoluzione umana, un’umiliazione anfibia. È il rientro nell’utero sbagliato, quello salato, quello infestato, quello dove non dovremmo più essere.
Per questo non ci vado, perché non sono un pesce, non sono una medusa, e non ho intenzione di fingere che la felicità sia una sdraio bollente tra due estranei che odorano di nicotina e cocco. Perché il mare, alla fine, non è affatto profondo: è solo una gigantesca pozza di superficialità condivisa.