Cronache

In Australia una metafora universale

In Australia una metafora universale

Dario Vassallo

Il bianco e il nero della pelle di colonizzatori e indigeni ma anche il rosso della sabbia di una terra tanto riarsa dal sole quanto bagnata da improvvisi e repentini temporali, forieri di disgrazie e sventure: sono i colori dentro i quali si inscrive «Holy day», novità assoluta per l'Italia dell'australiano Andrew Bovell, produzione del Teatro Stabile in scena al Duse fino al 5 febbraio, che ci trasporta in una realtà distante nel tempo che lancia però lampi di sconcertante e drammatica universalità, in una terra che più remota non potrebbe essere e che pure ci appare come fosse dietro l'angolo.
Australia, paese da occupare per chi arriva dalla lontana Inghilterra, metà del diciannovesimo secolo: in mezzo al deserto, lontano da ogni dove, c'è un ricovero per viaggiatori gestito da Nora, una sorta di vivandiera che ha l'asprezza e la ruvidità di una piccola madre Courage, solo che oltre a cibo e bevande spesso agli avventori offre se stessa per denaro. Alle spalle ha un'esistenza semifallimentare - giorni sempre uguali, a sognare la verde Irlanda da cui proviene, che pure sorriderà a qualcuno ma non a lei - davanti a sé solo il conforto che le regala la presenza di Obbedienza, giovane nativa dalla pelle nera che ha trovato neonata in mezzo ad un cespuglio e che considera (e ama) come una figlia. Sarà l'arrivo di tre fuorilegge e di una donna alla quale gli aborigeni hanno ucciso il marito e rapito la figlia, o almeno questo è quanto lei racconta, a minare il delicato equilibrio di una terra dove la pacifica convivenza è un optional e dove la lotta per la sopravvivenza non guarda in faccia nessuno.
«Holy day», che acquista adesso forma compiuta di spettacolo dopo essere stato presentato la scorsa primavera in forma di lettura scenica, ha in sé la potenza di un dramma elisabettiano e la forza epica di un testo estremo. Per chi non l'avesse visto in quella circostanza, una bella scoperta. Perché se è pur vero che noi sappiamo -ce lo ha insegnato la Storia- quanta violenza e quanto sangue si celino dietro ogni colonizzazione e ogni conquista, per quella del suo paese Bovell non fa sconti e ce la butta in faccia senza alcuna indulgenza ma piuttosto con lucida e spietata determinazione. «Stiamo costruendo una nazione e non può essere senza costi», dice un personaggio ma i costi, qui, sono davvero enormi, e nessuno sembra accorgersene. Tra le persone che hanno la pelle bianca, non ci sono buoni, ognuno ha il suo bravo scheletro nell'armadio, la sua colpa da espiare, una rabbia feroce con la quale è condannato a convivere, pronto ad ogni compromesso perché tutto ha il suo prezzo, perfino le persone che vengono barattate come povere cose. Si agisce per odio o per troppo amore, sentimenti che a volte finiscono per sovrapporsi. Ma non c'è pentimento, non c'è indulgenza, non c'è catarsi. Siamo nati dal sangue, dice Bovell in un dramma che assume i contorni di una metafora universale, e col sangue dobbiamo fare i conti.


Un testo, insomma, allarmante e minaccioso che il regista Marco Sciaccaluga ha messo in scena in maniera intensa e serrata, coadiuvato da un cast di giovani attori (Sara Bertelà, Fabrizio Careddu, Daniele Gatti, Barbara Modelli, Stefania Pascali, Pierluigi Pasino, Fiorenza Pieri e Vito Saccinto) che hanno mostrato di credere molto in un copione che ci costringe a fare i conti con il lato oscuro di noi stessi immergendoci in un baratro -nero, ovviamente, come l'orrore- nel quale non possiamo non specchiarci senza vergogna e raccapriccio.

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