Autogol Il teorema Ingroia: democrazia salvata dai pm rivoluzionari

Datemi un giornale, una piazza, una tv. Per Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, ogni occasione è buona per combattere la sua personalissima battaglia. Contro la mafia, certo, ma prima ancora contro il governo e le sue riforme «anticostituzionali». Così, dopo l’intervento di una settimana fa ad «Annozero» quando invitò Berlusconi a dimettersi come fece il cancelliere tedesco Kohl, e dopo l’apparizione a sorpresa in piazza della Memoria a Palermo dove sprona il movimento delle Agende rosse a «insistere nel chiedere verità e giustizia», ieri il Pm allievo di Paolo Borsellino si è concesso a una lunga intervista-j’accuse su Liberazione. Così si parte da «C’era una volta l’intercettazione», titolo dell’ultimo libro scritto da Ingroia e pretesto del suo intervento, per sviscerare tutte le malefatte della classe politica in tema di giustizia. La sua tesi, infatti, è che «la classe dirigente italiana è allergica al principio di responsabilità, sia politica sia penale». Malattia che viene dagli anni ’50 ma che da allora, e per vent’anni, ha potuto contare su una magistratura compiacente che ha fatto blocco coi potenti. Poi quella che è una sorte di «confessione»: con la rivoluzione del ’68 la magistratura è diventata motore «di un processo di evoluzione democratica».

E cosa sta dicendo da mesi Berlusconi sullo strapotere delle toghe rosse? Per Ingroia però la battaglia democratica è tutt’altro che finita, perché «oggi si cerca di ripristinare e assicurare per via legislativa quell’irresponsabilità penale» di cui i politici godevano quarant’anni fa.

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