di Michel Maffesoli
Dolce follia? Sfrenato irrazionalismo? Innocuo capriccio? I quesiti sono tanti. Di certo c’è, dopo altre pellicole analoghe, l’uscita del film Avatar di James Cameron, fenomeno innegabile, segno del nuovo spirito del tempo. Le cifre parlano. Milioni di spettatori o l’hanno visto o lo vedranno, doppiato in una lingua o in un’altra. Poi c’è il merchandising, a dimostrazione che la tematica e il modo di trattarla corrispondono all’attesa del pubblico.
«Fenomeno» è ciò che si vede e si vive. Lo è il ritorno della fantasia, del fantastico, del fantasmagorico e di altre simili frivolezze. Potete arricciare il naso, disgustati, ma Avatar ricorda la prevalenza della magia, anzi della «tecno-magia», indizio fra tanti del «reincanto del mondo».
Il Signore degli Anelli aveva preparato il terreno. La profusione di film in cui l’inferno contende al regista le forze tenebrose, dice che la sciocca marcia reale del Progresso non soddisfa. I Lumi, insomma, cedono al chiaroscuro dell’esistenza. Il successo di film come Avatar ci rammenta che, alla lunga, le società hanno bisogno di miti. Li fondano, li ri-fondano o s’annidano in quelli sempre esistiti, in una forma o in un’altra.
Avatar riprende la vecchia, eppur nuova figura del mito del «doppio». Poeticamente, profeticamente Arthur Rimbaud aveva annunciato: «Io è un altro». Si tratta di un archetipo inconfutabile, quello di un essere in continuo divenire, confrontato ovunque a una nuova avventura.
Antagonista di chi specula sulla presunta esigenza di mettere in sicurezza l’esistenza, sul bisogno sociale del rischio-zero, l’avventuriero dalla doppia vita sa d’avere sempre avuto «sete d’infinito», desiderio dell’altrove. Avventura, elemento essenziale della natura umana...
Il vecchio Hippolyte Adolphe Taine non è mai citato abbastanza per quel che disse sul clima: che influenza gli uomini ben più della storia razionale e ragionante. Estrapolando la sua frase, teniamo presente che anche i climi spirituali non risparmiano nulla e nessuno. Avatar sottolinea questa atmosfera del meraviglioso, dove paura e fascino sono inestricabili.
La giungla che i terrestri civilizzati vogliono sfruttare cede il posto a un atteggiamento iniziatico. Cioè a un incamminarsi sempre rinnovato, fra agguati e prove mai del tutto superate. La parte d’ombra resta, la morte può sempre trionfare.
È tutto quello che rende i «selvaggi» indomiti figure emblematiche post-moderne. Simboleggiano la straordinaria voglia di vivere tipica del tempo nascente, non lasciandolo più raccontare. Le giovani generazioni attuali sanno bene, infatti, di un sapere innato, non teorico, d’una conoscenza fatta d’esperienze, che la vita non è per nulla un fiume tranquillo. Ma in essa ci sono sommovimenti, turbini e altre vicissitudini. Tutte cose da affrontare con grazia, disinvoltura, perfino insolenza.
È quel che fa il marine, il cui avatar, il doppio, è mandato come spia. Cristallizza, abbellisce, «epifanizza» le prove che fanno la vita di ogni giorno. Si radica in un archetipo immemorabile, ridà forza e vigore a uno stereotipo quotidiano. Quello di un avventuriero indomito, che rivela la sclerosi delle istituzioni «civilizzate», riproponendo la forza del sogno, il desiderio d’una natura inviolata con la quale essere in perenne comunione. Il vecchio sogno di una terra madre, che la modernità ha devastato, da ritrovare nella sua purezza primigenia.
A poco a poco, lo spirito borghese occidentale è stato dominato dal principio di realtà. Ed ecco la fantasia, del ludico e dell’onirico insieme, ispirarsi al ricordo. Il film Avatar lo sottolinea con vigore. In tal senso è in sintonia con la circostante voglia di magia, col desiderio che rifiuta la stabilità, l’egemonia economica, e che fa sua alla lettera la frase di Friedrich Nietzsche: «Diventa ciò che sei senza mai smettere d’imparare».
Stregoneria, satanismo, sciamanesimo, paganesimo latente: la lista dei molti fenomeni post-moderni - che si possono stigmatizzare, criticare e negare, ma che vieppiù contaminano la vita quotidiana - potrebbe allungarsi a piacere.
La chiara oscurità, per così dire, di questo film sull’iniziazione di un eroe da leggenda, avatar del marine che s’accetta come «selvaggio» e si fa iniziare nella tribù, illumina. Si sa: la figura retorica post-moderna è l’ossimoro... Lo rappresentano figure emblematiche del film, animali e umane insieme. Mettono in gioco la luce nera dei sentimenti, la carica emotiva, l’importanza degli affetti che agisce nei miti, nei racconti e nelle leggende attorno ai quali si riuniscono le odierne comunità.
La zebratura sul corpo dei «selvaggi» come l’avatar del marine è la stessa che ricorre in tatuaggi, piercing e altri marchi corporei in voga. Essa ricorda che l’animale umano conserva la propria parte oscura. Bisogna farsene una ragione per giungere a una forma d’interezza.
Avatar, saggezza demoniaca della postmodernità agli albori!
Traduzione di Maurizio Cabona
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