Gli Avati, i Vanzina, i De Sica: l’arte di collaborare o di non pestarsi troppo i piedi

COPPIE E NO Alcuni parenti lavorano insieme dividendosi i compiti, altri prendono strade diverse

Gli Avati, i Vanzina, i De Sica: l’arte di collaborare o di non pestarsi troppo i piedi

D’accordo, non si parlano da due anni per questioni familiari. Ma alla fine dei conti, intervistato da Vanity Fair, Silvio Muccino ringrazia il fratello famoso «di avermi dato l’opportunità di fare cinema» e riconosce: «Gabriele è un regista così bravo e solido da non avere certo bisogno di me». Per dire, insomma, che anche in fatto di cinema la formula «fratelli coltelli» non è poi così scontata, naturale. C’è sempre il fattore umano di mezzo, quel mix di affetto, consuetudine e rivalità; unito al bisogno di intendersi comunque, specie se si fa ditta insieme sui titoli di testa. Esempi? Quanti ne volete. I Taviani (Paolo e Vittorio), gli Avati (Pupi e Antonio), i Vanzina (Carlo ed Enrico), i Manetti (Marco e Antonio), i Mazzieri (Luca e Marco): famosi o meno, giovani o stagionati. E ancor prima i Bragaglia (Carlo Ludovico e Anton Giulio), per non dire dei De Filippo (Eduardo, Peppino e Titina), protagonisti nel lontano 1944 di una clamorosa separazione artistica. Del resto, visto che di cinema parliamo, tutto non cominciò forse coi fratelli Lumière...?
Poi, certo, è più facile non pestarsi i piedi quando si lavora nella diversità dei ruoli. Prendete gli Avati. Non firmano i film da coautori, come i Taviani o i Coen, ma di sicuro - annota Paolo Ghezzi in Sotto le stelle di un film - «l’Avati touch di Pupi non sarebbe lo stesso tocco, familiare, intimo, coinvolgente, artigianale, non ci fosse Antonio, dietro le quinte gomito a gomito col fratello, a dirigere le danze della produzione, a camminare sul filo teso tra le banche finanziatrici e le fantasie creatrici, tra i sogni e la cassa». Vero.
È altresì (più) semplice filare d’amore e d’accordo se i rispettivi mondi artistici non si sfiorano. I fratelli Dino Risi e Nelo Risi mai si sono fatti concorrenza in sala, e così i figli del regista del Sorpasso, cioè Marco e Claudio, ambedue registi. Vale anche, sia pure in maniera diversa, per le dinastie di attori. Alessandro e Paola Gassman agiscono su versanti diversi dello spettacolo, pur recitando entrambi. E che dire dei quattro Tognazzi? Gianmarco è attore puro, Ricky predilige la regia (salvo concedersi qualche incursione «alimentare» nella pubblicità) al pari di Maria Sole e del norvegese Thomas.
In fondo anche i Verdone non si sono mai pestati i piedi. Differenti per gusti e sensibilità, Carlo diede una mano al fratello regista Luca all’epoca di 7 chili in 7 giorni, commedia grottesca forse da riscoprire, ma poi le strade si separarono di nuovo sul piano artistico. E se dici Verdone il pensiero corre subito agli apparentati De Sica, con Christian mattatore puro, volentieri votato ad un eclettismo spumeggiante, e Manuel compositore di colonne sonore, spesso ingaggiato dal padre celebre, di cui custodisce la memoria impegnandosi nel restauro dei film.
È possibile, anzi probabile, che tutti i cine-fratelli fin qui evocati abbiano litigato nel corso della loro carriera. Anche di brutto. O magari che abbiano messo il silenziatore alle critiche reciproche, per quieto vivere, per non doversi poi guardare in cagnesco, perché non è facile essere sinceri fino in fondo nel mondo dello spettacolo (dove pare esistano solo capolavori).

A meno di non sottrarsi alla «fratellanza», un po’ come fece, sul piano creativo, il terzo fratello Taviani, il meno noto Franco. «Quello singolo, che preferisco ai due associati», scrisse maliziosamente Oreste del Buono, nel lontano 1990, recensendo l’ottimo film tv Modì. Vita di Amedeo Modigliani.

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