«Aveva i titoli», primario dopo vent’anni

Siamo di fronte non a un caso di «negligenza ma ad una deliberata ac prava voluntas dell'apparato amministrativo», una persecuzione bella e buona in cui a un medico che aveva tutte le caratteristiche per dirigere un reparto è stato impedito di andare ad occupare la carica cui ambiva. Ecco le motivazioni della sentenza con cui il Tar della Lombardia ha messo fine dopo quasi vent’anni al braccio di ferro per la direzione di uno dei reparti più delicati del Policlinico di Milano. Si tratta del reparto di chirurgia d’urgenza: ma la giustizia, verrebbe da dire, non è stato altrettanto urgente.
E, come era inevitabile, una sentenza che arriva dopo quattro lustri non può fare altro che consolare in qualche modo i protagonisti. Angelo Salvini, il primario discriminato, ormai è in pensione. Aveva chiesto 750mila euro di risarcimento, il Tar ha rinviato ad una perizia la quantificazione del danno subito. Ma la sentenza - firmata dal presidente del tribunale amministrativo Piermaria Piacentini - ha parole severe per il comportamento con cui chi doveva decidere - cioè i vertici del Policlinico e dell’Università - impedì a lungo a Salvini di ottenere la guida del reparto: «nonostante avesse a disposizione un docente di prima fascia dell'inquadramento professionale esattamente corrispondente alla funzione apicale vacante nella divisione di Chirurgia d'urgenza dell'Ospedale Maggiore di Milano, ha preferito caparbiamente affidarla a soggetti non provvisti dell’idonea professionalità pur di non attribuirla al ricorrente, persistendo in tale atteggiamento per un lungo periodo di tempo». Da questa ostinazione, secondo il ricorso che Salvini aveva avanzato al Tar, derivarono conseguenze d’ogni genere: «Il demansionamento gli avrebbe provocato un grave danno professionale (che si concretizza in una molteplicità di aspetti: danno all'immagine e alla reputazione, al decoro, al prestigio, al proprio livello di autostima), oltre che una vera e propria apatia professionale, derivante dal disagio psico-fisico e dalla frustrazione».
Ma come è possibile che si sia arrivati ad una sentenza solo a quasi vent’anni dai fatti? Lo scorrere dei fatti è surreale. Salvini arriva in reparto nel 1989, l’anno successivo chiede di andare a occupare la poltrona di primario, che è vacante da tempo. In aprile l’Università gli rifiuta la nomina sostenendo che l’intero management dell’ospedale sta per essere riformato, invece in dicembre nomina un altro primario. Salvini fa ricorso, il Consiglio di Stato impiega sette anni a dargli ragione, l’Università ci mette quasi due anni a dare esecuzione alla sentenza. Ma l’Ospedale si rifiuta di eseguire le decisioni della facoltà, e intanto siamo arrivati all’agosto del 2000. Salvini ricorre di nuovo al Consiglio di Stato, e arriva l’ordine definitivo: la poltrona deve andare a lui. A dicembre 2001, si insedia in via Francesco Sforza. Peccato che intanto gli anni siano passati. Meno di due anni dopo, Salvini va in pensione.


Ma il primario non molla: io avevo diritto, dice, ad essere il primario fin dall’inizio della faccenda, fin dal 1990. Presenta un nuovo ricorso. E alla fine di agosto, il Tar gli dà ragione. Sono passati diciannove anni.

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