Cronache

«Aveva ragione Siri Non ci fu una battaglia di piazza De Ferrari»

Alessandro Massobrio

Come ogni anno, il 25 aprile si approssima con le sue stanche liturgie resistenziali - grandi manifesti di folle in marcia verso la libertà, decrepiti ex partigiani chiamati a erudire intere scolaresche su scaramucce definite tout court battaglie, il gettonatissimo Bella ciao in versione riveduta, corretta e, ahimé, addirittura accresciuta - quando tutto d'un tratto si leva una voce a smentire, a raccontare sul serio la verità, a ricordare a tutti come il re sia assolutamente e vergognosamente nudo.
E la voce non appartiene di certo a quella che negli anni Ottanta veniva chiamata sprezzantemente la «fogna», vale a dire a quel popolo di destra a cui la repubblica nata dalla resistenza assicurava tutt'al più questa postazione privilegiata per esprimere le proprie inesprimibili idee. La voce appartiene ad un uomo di sinistra, ad uno storico del Novecento, che proprio in questi giorni esce nelle librerie della nostra città con un lungo racconto intitolato «Su Togliatti ed altro» (De Ferrari, Genova 2006, pag 142, euro 10,00).
L'autore in questione si chiama Nicola Simonelli trent'anni di lavoro all'Iri, plurilaureato, studioso e storico della resistenza, con alle spalle una buona dozzina di testi di carattere saggistico e narrativo. Simonelli - non ha nessuna remora a nasconderlo - è un uomo di sinistra, la sua visione del mondo è assolutamente laica ed aconfessionale, il suo rimpianto è che l'ideologia, la vecchia ideologia, venga da molti, anzi, da troppi, anche a sinistra, ridimensionata e riposta in solaio.
Eppure, visto che la menzogna, come la cornacchia della favola di Fedro, non può troppo a lungo menar vanto di se stessa sotto le penne di pavone della verità, ebbene, ecco che Simonelli ci propone un lungo apologo narrativo. Una storia dolorosa di vecchiaia e malattia, all'interno della quale alcuni giudizi controcorrente, alcune verità scomode ed imbarazzanti riescono a guadagnare la superficie. E là galleggiando, si rendono accessibili a tutti, anche a coloro che i libri di storia proprio non avranno mai voglia di leggerli.
Un viaggio in treno, un anziano viaggiatore, una giornata di primavera avanzata. Dietro le spalle, la Valle d'Aosta, verde di fiori sotto l'azzurro del cielo, laggiù, al termine della pianura, il mare e Genova, la città della giovinezza. Spartaco torna a casa. Sa di non aver ancor molto da vivere, ma confida negli anni, nella lentezza del suo metabolismo di anziano per tener a bada il male terribile che gli consuma il fegato.
A Genova, lo attende un amico dal nome curiosante famoso. Si chiama Giovan Battista, Giamba Perasso, proprio come il Balilla che abbiamo imparato a conoscere sui sussidiari della nostra infanzia. Perasso abita in un altissimo casermone di Sampierdarena, è paralizzato ad entrambe le gambe, vive impartendo qualche lezione ai ragazzi del circondario. In cambio, i genitori gli forniscono viveri di prima necessità: qualche fiasco d'olio e di vino, un po' di verdura.
Spartaco e Giamba hanno sempre vissuto su opposte barricate. Il primo è stato comunista convinto, sincero ammiratore di Togliatti; il secondo, per quanto di famiglia proletaria come l'amico, ha fatto propria la fede nelle parole di Mussolini. Ma il suo fascismo non è adesione acritica ed incondizionata ad un dogma. Perasso ha studiato ed approfondito. La sua ricerca si è estesa anche al campo della filosofia. Ha esaminato il pensiero di Croce e Gentile, ha riflettuto a lungo sull'attualismo.
Poi un libro inviato all'amico «espatriato» in Valle d'Aosta ha operato il miracolo. Spartaco, solo e lontano da casa, ma così vicino - ora che il male lo sta vincendo - all'ora suprema della verità, ha sentito il bisogno di rivedere il suo sodale di sempre, l'amico con cui tante volte si era confrontato.
Il racconto lungo di Nicola Simonelli si raggruma tutto, in fondo, in questo incontro, preceduto da un viaggio verso la Liguria, che è anche un viaggio all'interno di se stesso e dei propri ricordi. Un viaggio nella storia del Novecento, affinché da questa stessa storia il superfluo ed il vano siano rimossi. Ed il volto della verità, quella verità che ci fa liberi, finalmente risplenda.
Senta, Simonelli. Lei ha titolato il primo capitolo del suo racconto: 25 aprile 1945. Sulla Liberazione di Genova. Quale verità vorrebbe far emergere a questo proposito?
«Una verità estranea alla vulgata resistenziale e capace di presentare gli avvenimenti del passato così come davvero si sono svolti. Sa che cosa le dico? Che chi davvero aveva raccontato lo cose come veramente andarono fu il Cardinale Siri. Negli anni settanta egli raccontò tutto in un memoriale che venne attaccato soprattutto a sinistra, perché la sinistra è colta da terrore al solo pensiero di poter essere privata del suo mito fondativo che è poi la resistenza. Ebbene, l'insurrezione di Genova, come racconta Siri, non ci fu. Non ci fu nessuna battaglia di piazza De Ferrari. Se si verificò qualche scaramuccia, essa avvenne tra i reparti tedeschi in ritirata e gente della malavita, che risaliva dai vicoli verso il centro, probabilmente per saccheggiare e rubare».
Dunque, la resistenza ligure non fu parallela ed autonoma rispetto alla risalita delle truppe alleate dal centro Italia?
«Ma quale parallelismo ed autonomia? Le brigate partigiane agivano solo perché erano finanziate dagli alleati, i quali a loro volta avevano imposto dei commissari politici all'interno delle brigate stesse. Se inglesi ed americani non fossero stati a pochi chilometri da Genova, quando mai la città sarebbe insorta? Vede, la sinistra ha sempre cercato di accreditare la tesi di una guerra di popolo, di una sollevazione popolare che invece, se mai si verificò, fu soltanto a Napoli. Qui in Liguria, le bande partigiane, che - occorre precisarlo - non erano soltanto composte da comunisti, erano sottoposte anche al controllo della Curia. Nella brigata Mingo, vi era un cappellano, Don Berto, che era in contatto con Siri, compiva per lui un'opera di monitoraggio sulla situazione interna del movimento partigiano».
Lei richiama spesso la figura del Cardinale Siri. Qual è il suo giudizio su di lui?
«Siri fu un grande personaggio, un grande intellettuale, non per niente negli anni seguenti avrebbe seriamente rischiato di divenir papa. La sua opera durante la resistenza fu essenziale. Fu lui, perché l'arcivescovo Boetto era troppo malato per farlo, a contrattare la resa con i tedeschi. Pensi addirittura che l'incontro con il generale Meinhold avvenne a Villa Migone, che era la sede provvisoria della Curia, visto che quella di piazza Matteotti era stata bombardata. Insomma, se Genova si salvò fu merito di Siri e degli alleati, non certo delle brigate partigiane rosse. Che poi invece ne rivendicarono per intero il merito, ritenendo addirittura quella di inglesi ed americani una sorta di occupazione straniera».
Esiste però un altro capitolo del suo racconto, quello titolato: Il parroco che aiutò i criminali nazisti, in cui lei ritorna sul discorso dell'aiuto prestato, nell'immediato dopoguerra, da certi personaggi della Chiesa genovese ad esponenti del nazionalsocialismo, che cercavano di espatriare in America latina. Che cosa mi dice in proposito?
«Che il grande clamore creato, qualche tempo fa, intorno alla vicenda è stato del tutto spropositato, visto che la cosa era ben nota. Si sapeva, in altri termini, che il parroco di Di Negro, Don Bruno Venturelli, d'accordo con la Curia e con alcuni armatori come i Costa, aveva in qualche modo favorito questi espatri, ma la cosa venne tenuta nascosta anche da parte della sinistra. Del resto, questo mi convince sempre più della lungimiranza del Cardinale Siri. Erano gli anni '46 e '47, iniziava il lungo periodo della guerra fredda. La Chiesa, per prima, si rese conto che, eliminato il pericolo nazista, un'altra minaccia cominciava a gravare sull'Occidente, vale a dire il comunismo staliniano. Quel comunismo che non avrebbe esitato, come accadeva proprio in quel periodo in Grecia, a tentare anche da noi un colpo di mano per impadronirsi del potere».
Anche a questo problema lei dedica un capitolo del suo libro, rivalutando, in un certo senso, la figura di Togliatti.
«Certamente. Togliatti per me rimane il migliore e più avveduto politico del PCI. Fu lui ad impedire a personaggi come Secchia di portare a compimento quella guerra per bande che era nei piani dell'ala più estremistica del partito. Fortunatamente per l'Italia prevalse la sua strategia volta a conquistare il paese mediante il consenso».
Un consenso che doveva affondare le proprie radici soprattutto nella cultura.
«Senza dubbio. Togliatti si era reso perfettamente conto del fatto che il fascismo, soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta, aveva mobilitato le masse, creando un realtà politica in cui altissimo era il consenso. Pensi che gli scioperi del '44 a Genova fallirono proprio perché il regime aveva fatte proprie molte delle rivendicazioni portate avanti dai sindacati rossi. Un regime, oltretutto, che aveva colto l'importanza della propaganda e quindi della cultura, in particolare quella cinematografica, dando origine al neorealismo. Per cui il passo fu breve. Togliatti accolse moltissimi degli ex intellettuali fascisti nel partito, facendone degli organici strumenti di propaganda».
Lei si considera ancora un uomo di sinistra.


«Sì ma di una sinistra raziocinante, di una sinistra revisionista, che non considera il passato dogmaticamente immutabile ma materia di studio e di ricerca della verità».

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