Roma«Vulcanico, intraprendente, coraggioso e ambizioso». Ecco Dino De Laurentiis secondo Carlo Lizzani, il regista italiano con cui il grande produttore ha realizzato il maggior numero di film (tra i tanti Il Gobbo, Il processo di Verona con protagonista Silvana Mangano e Banditi a Milano), prima di lasciare l'Italia nel '72 per l'America.
Un sodalizio che parte da lontano.
«Sì, dai tempi di Riso amaro di De Santis con cui fui nominato all'Oscar per la sceneggiatura. Dino De Laurentiis era molto interessato ai premi e questo se lo ricordava sempre. Da lì iniziò la nostra fortuna, un incontro felice. E' stato il primo a non aver paura della mia etichetta di comunista».
Che tipo di produttore era?
«Per me è stato quello ideale. Se gli piaceva un'idea partiva a razzo. Firmava subito il contratto e si metteva al lavoro. È successo con La grande guerra a Vincenzoni che gli aveva raccontato il soggetto in pochi minuti e a me con Il Gobbo. Stessa cosa qualche anno più tardi quando, leggendo insieme i giornali nei giorni degli eventi della banda di Cavallero, su due piedi decise di produrre Banditi a Milano».
Interferiva nella realizzazione dei film?
«Be era un produttore che seguiva tutto, dall'inizio alla fine. Una volta però che c'era stato l'accordo sulla sceneggiatura e sugli attori poi lasciava fare».
Perché ha lasciato l'Italia?
«È stato un atto di coraggio, andare nella tana del lupo a sfidare colleghi molto più forti e radicati di lui. Una scommessa vinta, Hollywood era una fortezza. Comunque a muoverlo è stato il sogno americano del cinema che poi era lo stesso di tutti. Voleva che lo seguissi. Ma non me la sentii. Lui comunque ci provò facendomi girare a New York Crazy Joe, una trasposizione del Sessantotto nella mafia americana».
Aveva nostalgia del nostro Paese?
«Penso proprio di sì, anche perché voleva tornare a produrre un film italiano. Era il suo sogno, con cui voleva chiudere la carriera.
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