Tra avventura e solitudine ecco l'America di Hopper

Apre a Milano una grande rassegna sul pittore Usa più influente del XX secolo: letteratura e cinema gli devono parecchio. Tradizionalista, insiste sulla figurazione quando l'Europa ormai la considera superata: guarda la fotogallery

Tra avventura e solitudine 
ecco l'America di Hopper

Piacerà agli esperti e al grande pubblico l’antologica di Edward Hopper che aperta a Milano a Palazzo Reale. Ai primi per la scoperta di chicche e inediti, concentrati soprattutto nella carriera iniziale del pittore americano, agli altri perché nonostante manchino alcuni capolavori, quei quadri da poster, da copertina di libro, da citazione cinematografica che tutti conoscono dai cataloghi e pochi hanno visto dal vivo, Hopper resta uno degli artisti più celebri e riconoscibili. Popolare e raffinato, piace a diverse categorie di appassionati, anche se, o forse proprio per questo, ha perseguito nella sua lunga carriera una posizione fortemente antiavanguardista. Guarda la fotogallery

Con Hopper nasce a tutti gli effetti l’arte contemporanea negli Stati Uniti. È un solitario, un tradizionalista, uno che non agisce all’interno di un gruppo, soprattutto è un pittore che insiste sulla figurazione quando le correnti europee la consideravano superata e inadatta a rappresentare l’enfasi modernista del XX secolo. Fino agli anni ’60 in America manca una tradizione cui far riferimento, troppo giovane questa nazione per sviluppare un’idea di arte propria e autoctona. Fin dall’800 i pittori statunitensi venivano mandati a far esperienza nella Vecchia Europa, a copiare i capolavori nei musei e affinare una tecnica che nessuna scuola avrebbe mai potuto insegnare loro. Come altri giovani della sua generazione (Hopper nasce nel 1882 a Nyack, Stato di New York) vede nell’Impressionismo la grande svolta: tra 1906 e 1910 si reca più volte a Parigi per studiare i pittori della luce, che ancora mantengono la figura all’interno delle loro opere ma la sfaldano fino a portarla al concetto puro. Non più immagine, ma idea, nonostante fosse ancora necessario richiamarsi alla realtà. Proprio su questo primo e misconosciuto periodo insiste il curatore Carter Foster, conservatore del Whitney Museum, l’istituzione che detiene il maggior numero di dipinti, disegni e incisioni di Hopper. C’è la frenesia di una ricerca del nuovo che anima le vedute del Lungo Senna, di Notre-Dame e del Louvre, ma siamo ancora distanti dal pittore «americano per eccellenza», quello dei bar di notte, delle strade desolate senza un’anima viva, delle pompe di benzina e dei paesaggi di campagna.

Nella mostra, non cronologica ma tematica, ci si può deliziare con le incisioni e i taccuini, talora concepiti come bozzetti di quadri, ma spesso del tutto autonomi dalla pittura, dove escono la raffinatezza e l’abilità tecnica dell’artista. Talmente bravo che qualcuno lo scambiò per un artigiano.

Uno dei filoni meglio studiati nella mostra è quello dell’erotismo, il particolare sguardo da buco della serratura che Hopper adotta nei confronti del nudo e della sessualità. Tralasciando la lettura corrente, ovvero la solitudine, l’alienazione, l’incomunicabilità, c’è da sottolineare la profonda analisi formale che Hopper dedica al corpo, evidente nei bellissimi disegni. Le sue matrici comprendono sia Tiziano che Degas, il Manierismo come l’Impressionismo e rimettono in discussione il fatto che dipingere figure, nel secolo del moderno, sia una scelta di gusto rétro. Lo conferma una delle opere più belle e famose presentate a Milano: «Girlie Show» del 1941, uno spogliarello in un teatro di provincia, dall’attualità sorprendente nel suo profondo spirito analitico, che sembra eseguito ora. Nella medesima sezione si ammira «Morning Sun» del 1952, senz’altro responsabile di aver alimentato il mito di Hopper come pittore di solitudini: in una stanza squallida una donna fissa il vuoto mentre noi dalla finestra scorgiamo il dettaglio di una fabbrica.

Siamo all’inizio degli anni ’50, l’epoca dell’affermazione dell’Espressionismo astratto, prima corrente completamente americana, evoluzione dell’Informale europeo, che aveva tra i suoi protagonisti autori come Pollock, Motherwell, De Kooning, Gorky e il primo Rauschenberg. Ovvero, la crema dell’avanguardia pittorica. Eppure, alla lunga, il tradizionalista Hopper ha influenzato ben più a lungo la cultura del suo Paese, e non soltanto nelle arti visive. Tutto ciò che noi intendiamo come immaginario americano deriva senz’altro da qui, e non si tratta solo della evidente discendenza di artisti contemporanei, pittori quali Eric Fischl, Alex Katz nei ritratti, Kurt Kauper, fotografi come Philip Lorca di Corcia e Gregory Crewdson, che della poetica hopperiana sono addirittura interpreti filologici. Si respira Hopper nella letteratura, da Kerouac a Richard Ford, da Sam Shepard a Corman McCarthy, dal mito dell’On the Road alla bellezza degli spazi desolati. Il paesaggio di Hopper finisce per essere il paesaggio prevalente nella nostra idea di America: la casa solitaria di «Cape Code Sunset» del 1934, dove ha abitato a lungo con la moglie, il faro di «Light at Two Lights» del 1927, le case con i tetti spioventi, tipici dell’architettura di provincia, in «Second Story Sunlight», (1960) ritornano nel nostro immaginario visivo, si tratti di ambienti metropolitani, cittadini o di open space dove il vuoto ricorre, prepotente.

Evidenti sono le citazioni cinematografiche e gli omaggi che la Settima arte gli deve: dal celeberrimo motel di «Psycho» al film che porta il titolo di uno dei suoi dipinti più famosi, «Nighthawks» di Bruce Malmuth del 1981, uscito in Italia come «I falchi della notte», con un giovane Sylvester Stallone. Persino la musica indie rivela più di un debito nei confronti del pittore. Chi se non il miglior Tom Waits, quello degli anni ’70, pianoforte, whisky e sigarette, poteva ispirarsi a Hopper e raccontare di malinconie da bar e biografie di perdenti, citando ancora il quadro nell’Lp del 1975 «Nighthawk at the Diner»?
Rispetto alle avventure tutte genio e sregolatezza dell’artista contemporaneo, Hopper ribadisce la propria completa estraneità alla moda e alle tendenze in voga. È un borghese che non si ribella a niente, un signore dai gusti classici, che lavora in giacca e cravatta, ama la vita in campagna con la moglie ed è indifferente a ciò che sta accadendo nel mondo. Muore nel 1967, quasi non volesse prendere atto dei cambiamenti e delle rivoluzioni destinate presto a esplodere.
La mostra a Palazzo Reale, che presenta una curiosa installazione interattiva del video-artista austriaco Gustav Deutsch in cui si ricostruisce un quadro di Hopper come una scenografia, si chiude con un ritratto dell’artista da vecchio, seduto di spalle nello studio, sigaretta tra le dita, a dare l’ultimo sguardo ai suoi quadri appoggiati alle pareti.

Quasi il manifesto critico dell’esposizione, che privilegia le B Sides ai pezzi da hit parade. Ma è proprio frugando tra le curiosità che troveremo quei capolavori nascosti, ideali a soddisfare il desiderio di bella pittura che sempre ci accompagna.

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