Scaglione, per una filosofia della gastronomia

Il libro “Sul gusto (o del gusto)” è una racconta di saggi nei quali il pensatore milanese analizza “un mondo necessario (il cibo), in cui il pensiero è sempre stato un passo indietro rispetto a piaceri e bisogni”. Si riflette sulla percezione, sul conformismo, sul bisogno degli chef di essere elogiati, sull’inconsistenza del “kilometro zero”, smontando a uno a uno tutti i pregiudizi o i pensieri deboli del discorso gastronomico attuale

Sul Gusto, Nicolò Scaglione
Sul Gusto, Nicolò Scaglione
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I limiti possono essere uno stimolo creativo? La cucina popolare è in fondo razzista? La cucina contemporanea, così piena di regole e strutture di riconoscimento, è conformista? Se una cena dura tre ore e alla fine solo mezz’ora è trascorsa a portare la posata alle labbra, come impieghiamo il resto del tempo?

Sul Gusto, il libro

Sono alcune delle domande a cui cerca di dare risposta (ma spesso sono solo altre domande) Nicolò Scaglione, filosofo e gastronomo, nel libro Sul gusto (o del gusto). Saggi di filosofia gastronomica, un volume edito da poco da Manfredi Nicolò Maretti, in cui sono raccolti scritti sparsi che Scaglione ha scritto nel corso degli anni sui più vari temi legati alla gastronomia, in un pensiero travolgente e in continuo cambiamento che induce lo stesso autore a smentire se stesso, scrivendo, dopo un asterisco al capitolo La convivialità è stata capita o è stata rapita?, “su diversi punti di questo saggio non sono più d’accordo”.

Scaglione, classe 1980, milanese dell’hinterland, è personalità anomala, per certi versi scomoda, assai distante da certa placida acquiescenza che domina il discorso sul gusto attualmente in Italia. Scrive nell’introduzione Niko Romito, lo chef del ristorante tristellato Reale a Castel di Sangro e uno dei cuochi più pensanti dell’intero panorama nazionale: “La mia prima chiacchierata con Nicolò avvenne nel 2018 a Casadonna: durante la cena al Reale fece parecchie osservazioni che si prolungarono nel dopocena, davanti al caminetto, e si conclusero con l’invito da parte mia ad abbandonare il ristorante e non metterci più piede. Fu l’unica volta nella mia vita in cui persi le staffe con un cliente”. E chi conosce lo chef abruzzese, sempre placido e portato al ragionamento, non può che sorprendersi di un simile comportamento da parte sua e domandarsi quali provocazioni debba aver messo in atto Scaglione per fare inalberare un uomo quasi zen. Poi il rapporto tra i due si è ricomposto ed è oggi fatto di periodiche discussioni “talvolta vivaci ma sempre serene e costruttive”, scrive Romito.

A leggere il saggio si capisce perché Scaglione sembra farlo apposta a dare filo da torcere agli chef. Nel capitolo Riconoscenza e riconoscimento come forme del cuoco, scrive: “Il ristorante deve diventare anche una clinica di riconoscimento mentale e lo chef deve decidere il proprio pubblico, pena l’estinzione. La casualità della scelta da parte di un pubblico generalista causa solamente la cortocircuitazione del desiderio e una determinazione (“voglio andare lì”) che si trasforma in un surrogato per i motivi più disparati: la comodità, la vicinanza, il prezzo, la possibilità di trovare sempre posto. Motivi che nella maggior parte dei casi il giorno successivo porteranno a una clientela inesistente”.

E nello stesso capitolo elegge la trattoria Trippa a Milano come, al contrario, esempio di “luogo di culto della classe aspirazionale milanese, quella capace di attendere un tavolo, di esaltarsi, di tenere lontano l’aridità relazionale, di sedersi attorno a un piatto per parlare di quanto il lavoro sia assorbente, si essere sostenibile, una classe sociale che basa la propria esistenza sulla conoscenza e non sul denaro”. Nel capitolo Filiere, origini e materia prima: ovvero kilometro nullo smonta la retorica della vicinanza dell’ingrediente: “Cosa significa conoscere l’origine? Riconoscere un luogo, una faccia, un territorio? Arrivare alla qualità attraverso la vicinanza? “Lo ha fatto il contadino” non significa nulla, non perché manchi il fatto ma perché manca l’atto. Il contadino non esiste perché esiste una campagna, non basta un terreno per trovare un kilometro zero, non basta una cascina per trovare un prodotto sano”.

Scrive Scaglione: “Sul Gusto è il frutto di una ricerca partita dagli artigiani più estremi, tra i pascoli montani, passata attraverso i laboratori di sfogliati metropolitani e conclusasi, in uno dei suoi percorsi, tra le tavole più visionarie del mondo. Qui in mezzo, si è sviluppata una riflessione che ha avuto il cibo come punto di vista privilegiato su linguaggi, desideri e relazioni. Accorgendomi presto di non essere né Joyce né Heidegger, che hanno avuto la forza teoretica di mettere a tema l’essere in quanto essere, ho deciso silenziosamente di spostarmi verso un mondo necessario (il cibo), in cui il pensiero è sempre stato un passo indietro rispetto a piaceri e bisogni. Così ho iniziato a indagare. Partendo dalle materie prime, dai piatti, dai racconti, ha vieppiù preso piede un’investigazione non più sul cibo ma sull’uomo davanti al cibo.

Ecco, se questi saggi possono essere degli universali, lo sono in quanto pongono le domande “come e perché” che ognuno può (deve?) porsi ogni qualvolta si trovi in uno “stato gastronomico”.

Del Gusto, Maretti Editore, 96 pagine, 20 euro. Prefazione di Ferran Adrià

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