Aymé, scrittura che lascia senza parole

Due ragazzi stanno seduti a un tavolo, uno di fronte all’altro. In mezzo, bottiglie e un paio di bicchieri. Si tratta di un fotomontaggio: sono la stessa persona. Un trucco tipico dei primi decenni del ’900: il fotografo deve aver fermato l’otturatore, tenendo le lastre ferme quel tanto da permettere al soggetto di fare il giro della tavola, mettersi un berretto e guardare con aria ironica il se stesso di qualche momento prima che, invece, aveva un’espressione sognante. In questo ritratto del 1912 c’è tutto Marcel Aymé. Guardarsi sognare, prendere le distanze dalla propria innocenza: inizio di una feroce capacità di osservazione che tutto comprende e nulla condanna. Inizio della malinconia...
Nato nel 1902 da un fabbro ferraio rimasto presto vedovo, Marcel si ritrova, con la sorella Suzanne, a essere cresciuto dai nonni materni, nel Jura: non dimenticherà mai l’atmosfera a metà strada fra saggezza contadina e ignoranza caparbia, onnipresente in quei villaggi dove i punti nevralgici erano ancora il mulino, la piazza, il municipio e le osterie. Trasferitosi a Parigi dopo una lunga malattia, Aymé compie un vano tentativo di iscriversi alla facoltà di medicina. Gli toccherà trovare impiego in banca, vendere polizze assicurative, lavorare in cronaca. Finì per tirare la cinghia fino alla pubblicazione dei suoi primi romanzi: Bruciaboschi, I gemelli del diavolo, Pian dei crepati, La strada senza nome. Gli ultimi due, all’inizio degli anni ’30, attirarono premi in denaro e l’attenzione della critica: Gaston Gallimard decise di mettere l’autore a libro paga.
Aymé si trasferì di fronte alle vigne di Montmartre, nel 18º arrondissement dove oggi c’è una piazza a suo nome. Lì scrisse La giumenta verde, capolavoro ora riedito in italiano da Donzelli in una nuova, esemplare traduzione di Alessia Piovanello (pagg. V-232, euro 22,90). Presso lo stesso editore possiamo trovare anche Le storie del gatto sornione, secondo libro più importante dell’autore. Favola feroce eppure umanissima, narrata in uno stile classico ma molto attuale nella sua cruda descrizione degli istinti umani, La giumenta verde inizia con la nascita di una cavalla verde giada: il padrone ne ricava agio e onori, l’animale finisce immortalato in un quadro. Proprio da questa tela, la giumenta osserva e ci racconta, in pagine che sconfinano nel licenzioso, vita, amori, intrighi e tradimenti tra due famiglie di un villaggio. «Non si tratta - disse Aymé - di uno studio psico-ereditario-patologico sull’esempio di gran parte dei romanzi scritti sotto il controllo del dottor Freud. Ho voluto ridere dei ricordi».
Durante la guerra Aymé vende testi a riviste dell’Occupazione, rimane vicino a Céline, prende le parti di Brasillach, ma non è coinvolto in nessun processo dopo l’arrivo degli alleati. Amico di Jules Supervielle, Eugène Dabit, Drieu La Rochelle, Emmanuel Berl, Jean Cocteau, Colette, Roger Nimier, ebbe la stima di tutti, e da tutti se ne stette al riparo, nascosto dietro i suoi occhiali nerissimi. La sua «laconicità allucinata», che sovente diventava mutismo, portò a malintesi divertenti quando non drammatici, innanzitutto per le sue tasche. Un giorno, Aymé e Antoine Blondin si incontrano nella metropolitana. Dopo essersi stretti la mano, restano in piedi, vicini, senza pronunciare parola. Arrivati alla fermata dove entrambi devono scendere, non hanno il coraggio di interrompere il dialogo muto che si è instaurato. Scoppiano a ridere, e tornano indietro. Un’altra volta, André Gide fu presentato all’autore dell’eccellente pièce cui aveva appena assistito, Luciana e il macellaio. Cominciò a tessere le lodi del dialogo, l’originalità dell’intreccio, la legittimità del successo dell’opera. Aymé rimase in silenzio, fino a quando Gide si congedò, per raccontare il giorno dopo a Gallimard: «Forse ad Aymé non piace quello che scrivo». Era vero il contrario. E da ultimo: Marcel sbarca negli Usa, invitato dalla rivista Collier’s. Gli chiedono: «Che cosa la meraviglia di più in America?». «Il fatto di trovarmici».
Ma non era boria: le testimonianze degli amici e di Marie Antoinette, compagna di vita per decenni, parlano di un uomo silenzioso perché perso nei nostri pensieri, non nei suoi; di uno scrittore che si volle assente persino dalla propria opera anche se vi rimane sempre presente per via dello stile inimitabile.

Contemplare la vita per trasfigurarla in arte senza fare il moralista né il filosofo, andando a verificare sul campo l’aforisma di Alain: «Il fatto saliente della storia umana è che gli uomini hanno sempre creduto a quello che gli si raccontava piuttosto che a quello vedevano e toccavano».

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