La Bachmann e il felice «esilio» capitolino

Esposte foto e ritratti della scrittrice austriaca

Cinzia Romani

«Ho visto che chi dice “Roma” intende ancora il mondo e la chiave della forza sono quattro lettere, S.P.Q.R. Chi conosce la formula, può chiudere i libri». Parole di Ingeborg Bachmann, una delle più importanti scrittrici del ’900, vissuta a lungo nella capitale che adesso le dedica una mostra alla Casa di Goethe, in via del Corso. Fino al 2 luglio sarà possibile vedere, oltre agli splendidi ritratti che Garibaldi Schwarze, il sensibile fotografo dei divi, fece della poetessa di Klagenfurt, molti oggetti evocativi dell’universo bachmanniano. C’è il dado blu di cristallo, con un cuore ancora più azzurro, citato nel romanzo Malina quale fonte di lirico stupore. Ci sono alcuni scatti in bianco e nero che fanno rivivere la gioventù di intellettuali del calibro di Roberto Calasso, il fondatore dell’Adelphi, o di Alberto Arbasino, anch’egli amico dell’autrice negli effervescenti anni romani. Ci sono tutte le edizioni, nel tempo, dei fortunati libri concepiti da questa austriaca, trapiantata tra il 1954 e il 1973, nella città luminosa e pazza che lei amava. C’è, insomma, in tale ricca esposizione ideata dalla poetessa Christine Koschel e dalla critica letteraria Inge von Wedenbaum, curatrici delle opere di Ingeborg Bachmann presso l’editore tedesco Piper, l’aura di un tempo letterario ormai perso. Che cosa potrebbero dire agli adoratori del Grande Fratello televisivo la scatola di sigarette preferita dall’autrice de Il trentesimo anno, o le fotografie in bianco e nero che ritraggono una giovane donna pensosa, magari leggermente rigida (come i nordici sanno essere) mentre versa il tè sulla terrazza della sua casa in via Bocca di Leone? Eppure, nelle foto di Schwarze, lei fa la spesa, cucina, fuma, legge giornali dai titoli imbarazzanti, per quanto risultino attuali, con i loro riferimenti alla mafia, al malcostume, a una capitale persa tra becerume e maestà. Prima della televisione di culto, molto prima, la poetessa calò a Roma per la propria «Bildung», o formazione, forse cercando quel calore umano che, in effetti, trovò nella principessa Margherita Caetani, mecenate della rivista letteraria «Botteghe Oscure»; in Giuseppe Ungaretti, del quale tradusse le poesie e, soprattutto, in Hans Werner Henze, il compositore ancor oggi di stanza a Marino, nei Castelli Romani, e con il quale ebbe una burrascosa relazione sentimentale. Il 25 giugno la Bachmann avrebbe compiuto 80 anni e da quest’impossibile evento trae spunto la mostra. Qualcuno, magari, ricorderà la tragica fine di questa donna, baciata dal successo dopo aver scritto Malina, il romanzo che le avrebbe portato la notorietà, ma anche una disperante solitudine. La morte arrivò nel 1973, dopo essersi addormentata con la sigaretta ancora accesa tra le dita. Nel corso della sua vita romana, la Bachmann cambiò casa sette volte. Dalla «piccola stanza senza riscaldamento in via Ripetta» al rinascimentale Palazzo Sacchetti in via Giulia, passando per i Parioli, svariati furono gli ambienti domestici in cui la scrittrice amava rifugiarsi, dopo le lunghe passeggiate con l’amica poetessa Christine Koschel.

Nella mostra non emerge solo il tracciato romano di un’eccellenza dei nostri tempi, ma anche la profondità di certi solchi epocali non più percorribili e tuttavia sempre a disposizione di chi li voglia transitare tramite le opere della scrittrice austriaca.

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