Il balzello nemico delle imprese che assumono

Considerata da numerosi imprenditori la prova di un fisco «vessatorio», l’Irap (Imposta regionale sulle attività produttive) è stata voluta nel ’97 dall’allora ministro delle Finanze, Vincenzo Visco. La tassa frutta ogni anno alle casse pubbliche poco meno di 40 miliardi di euro, ma per come è stata costruita finisce per gravare maggiormente sulle aziende con molti dipendenti o particolarmente indebitate
L’Irap, che considera il valore della «produzione netta», rappresenta comunque una delle principali imposte che pesano sul mondo delle imprese insieme all’Ires (nel caso si tratti di «società di capitali» come Spa e Srl) o all’Irpef (per le «società di persone» come le Snc). A pagarla sono tutti coloro che svolgono un’attività imprenditoriale: dalle grandi industrie agli artigiani oltre, salvo poche eccezioni, ai liberi professionisti. Viene poi corrisposta dalle amministrazioni pubbliche, ma solo in base al costo del personale.
Il gettito ricavato viene incassato su base regionale ed è in larga parte utilizzato (circa il 70% del totale) per coprire i costi del Servizio sanitario: vale un terzo della spesa totale che nel 2008 era di 106,7 miliardi. Denaro, quindi, importante per l’equilibrio delle entrate tributarie. Quando è stata introdotta, lo Stato ha eliminato sette «gabelle»: sono scomparsi in particolare i contributi sanitari, la tassa sulla salute, l’Ilor, l’Iciap, la patrimoniale per le imprese, la tassa annuale sulla partita Iva e le tasse di concessione comunale. L’annunciata «semplificazione» fiscale è però rapidamente apparsa ad alcuni economisti una grande «operazione estetica» che dal punto di vista sostanziale lasciava invariato il prelievo complessivo. L’osservazione, diffusa nel mondo imprenditoriale, è la seguente: Visco ha sostituito una imposta dalla aliquota «pesante» come l’allora Ilor con un’altra, l’Irap, solo apparentemente light perché calcolata su una base imponibile molto più ampia. A parte poche eccezioni, l’aliquota per le imprese è pari al 3,9% ma quanto all’imponibile l’Irap somma all’eventuale utile di bilancio sia il costo del lavoro sia gli interessi passivi pagati, ad esempio, a fronte di un debito bancario. A conti fatti, quindi, un’azienda che ha 100mila euro di ricavi, 30mila di costo del personale, 20mila di interessi passivi e 10mila di altri costi, deve pagare l’Irap non sui 40mila euro di profitti ma su una base di 90mila, in definitiva molto vicina allo stesso fatturato. Senza contare che l’Irap può essere dovuta anche se il bilancio è in perdita. Un fatto che non può che aumentare i mal di pancia delle pmi italiane e frenare gli investitori esteri: nel resto d’Europa non è facile individuare un’imposta similare, se non in Francia, dove esiste la «taxe professionelle» (che Parigi si è peraltro impegnata a eliminare).
Particolarmente inviso è il computo degli interessi passivi: una sorta di «sovrattassa» che penalizza le aziende molto indebitate e quindi già in difficoltà davanti all’attuale stretta del credito.

Ecco perché il presidente del consiglio nazionale dei dottori commercialisti, Claudio Siciliotti, ha invitato il governo a iniziare a «limare» l’Irap proprio rendendo deducibili gli interessi passivi per le pmi. Su questo versante si era concentrata anche l’attenzione degli Artigiani di Mestre, secondo cui il beneficio per le imprese si aggira sui 3,5 miliardi.

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