La bambina che sognava di essere «Sonnambula»

In quanti modi si può raccontare la storia di una vocazione che si confonde con la vita stessa in un viaggio lungo i sentieri tortuosi della memoria? Franco Scaglia, nel nuovissimo Luce degli occhi miei (Piemme, pagg. 308, euro 18,50), si affida alle onde concentriche del sogno in un continuum narrativo che ha ben pochi riscontri col piccolo realismo quotidiano di casa nostra. Non lasciatevi trarre in inganno dall’apparente facilità della scrittura che, con finissima ironia, ci conduce per mano fin dalle prime pagine nei meandri di una fiction che, come in un gioco di scatole cinesi, ci trasporta da un ambiente all’altro.
Dato che la vicenda di Maria, figlia e nipote di celebri soprano che intende ricalcare le orme delle primedonne di famiglia, snodandosi lungo la penisola assume via via l’aspetto di quelle seducenti prospettive trompe l’oeil cui ci ha abituato l’età barocca. Per svolgere davanti a noi con stupefacente originalità una sorta di romanzo del mistero. In cui le morti non sono che pure apparenze, la datazione storica è solo un pretesto e persino i nomi dei personaggi che, come linee sghembe o parallele che non s’incontrano mai, ritroviamo sempre spaiati e diversi da un capitolo all’altro si conformano al fragile tessuto connettivo di quello stato fra la veglia e il sonno. Ovvero della doppia vita che la protagonista attribuisce agli eventi in grado di agire sulla sua immaginazione.
L’autore narra in terza persona l’allucinante costellazione dei fatti provocati da Maria, e si attribuisce il ruolo muto ma onnipresente di colui che scioglie le fila dell’enigma toccato in sorte all’eroina. La quale vive, cerca, spera e s’illude di trovare finalmente se stessa nell’ambito dell’Ottocento che vide trionfare la Pasta e la Malibran per merito di Bellini. Compiendo tuttavia un iter che ha ben poco a che fare con la storia del XIX secolo. Il thriller disegnato da Scaglia si svolge infatti dentro e fuori dal tempo assecondando, in un abilissimo incastro di avvenimenti concomitanti, impennate e rallentamenti del sogno. Di cui è spia l’identificazione di Maria col ruolo per eccellenza del repertorio romantico: quell’Amina che, nella Sonnambula, canta la sua disperazione vagando a notte fonda sul fragile traliccio che separa il mulino dalle insidie della gora. Ma, a differenza dell’eroina dell’opera che conclude il suo tragitto in un festoso happy end, Maria non ritrova né scopre l’amore.

Ciò che le si rivela non è altro che un eterno ricominciare quando, a debutto avvenuto, l’immagine che l’ha assediata in un assillante svelarsi e negarsi lungo tutto il suo cammino, finalmente le appare. Immagine che ci riconduce al punto di partenza precipitandoci il lettore nell’ennesimo sogno.

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