Banche, Brasile e India puntano su Londra

RIVINCITE Le economie del Terzo mondo si sono avvicinate a quelle gonfiate dalla finanza

Rbs sta per Royal Bank of Scotland e costituiva il fiore all’occhiello del sistema bancario di Sua maestà britannica: un colosso che se la giocava alla pari con le grandi banche mondiali in ogni segmento di affari. Ebbene, presto potrebbe accadere quello che fino a poco tempo fa sembrava impossibile: cioè che la lettera «B» nel nome Rbs finisca per simboleggiare il Brasile. Vi sono infatti concrete possibilità che una grande banca locale brasiliana, il Banco Itaù, possa acquisire una significativa partecipazione nell’istituto di credito inglese. La banca Rbs è infatti stata colpita in modo durissimo dalla crisi finanziaria, e il Tesoro inglese è stato costretto a iniettarvi cifre rilevanti (gentilmente fornite dai contribuenti), per impedirne il tracollo.
L’assegno staccato dal governo inglese per puntellare le sue banche traballanti è stato grosso come sei volte la nostra ultima Finanziaria: molto più alte, poi, le cifre messe come garanzie. Come risultato adesso il preoccupato contribuente britannico possiede (per tramite del Tesoro) oltre l’80% del capitale azionario di Rbs e il conto dell’«acquisto forzato» gli sta già venendo presentato sotto forma di severi inasprimenti fiscali. Logico che in una situazione del genere ci sia poco da fare gli schizzinosi e chiunque sia disposto a pagare per comprarsi qualche pezzo della banca, venga ascoltato con interesse: solo così, infatti, i soldi spesi dal Tesoro inglese potrebbero ritornare in cassa, mettendo freno all’attuale deterioramento senza precedenti dei conti pubblici, con conseguente rivalsa in termini di tasse.
È questo lo scenario che ha consentito a Pedro Malan, presidente del Banco Itaù, la più grande banca privata brasiliana, di rilasciare ieri un’intervista al Sunday Times dove si diceva pronto a fare shopping di banche inglesi venendo preso sul serio, molto sul serio.
Non è ancora definito infatti quale sarà l’assetto finale del credito mondiale post crisi: sia in termini di proprietà che per quanto riguarda le regole, ma una cosa è certa: nel 2007 (e non è un secolo fa) nessuno avrebbe potuto immaginare niente del genere.
Tanto per cominciare si è assistito a un enorme accorciamento delle distanze: i colossi bancari mondiali sembravano ormai inarrivabili ma questi mesi hanno avuto l’effetto di una «safety car» in un Gran premio, allineando molti valori verso il basso. Così alcune economie emergenti, magari più legate alla concretezza delle materie prime o della produzione industriale, hanno potuto ridurre il distacco da alcune «economie di carta» occidentali che erano spinte dai loro centri finanziari e dall’illusione del credito facile. I numeri, però, qualcosa significano e adesso occorre prendere atto che, a esempio, la sola parte brasiliana del gigante iberico Banco Santander ormai vale in Borsa quasi la metà dell’intero gruppo, oppure che una banca privata indiana, la Icici bank, abbia una capitalizzazione superiore a venti miliardi di dollari e stia aprendo aggressivamente filiali proprio in casa degli ex colonizzatori inglesi. Non si contano, poi, gli interventi dei fondi sovrani di Paesi esotici nel capitale delle banche occidentali: in molti casi queste partecipazioni sono state travolte dai crolli delle quotazioni, ma in altre situazioni questi denari hanno contribuito in modo decisivo a tranquillizzare i mercati, basti pensare all’ingresso dell’agenzia di investimenti libica in Unicredit.

Se però ci sono pesanti dubbi sul ruolo dei fondi sovrani che rappresentano tutto sommato degli Stati esteri «camuffati» da finanziarie, niente si può dire sulle iniziative di banche private come è il caso del Banco Itaù. Sul credito inglese potrebbe quindi sventolare presto la bandiera carioca con tanti ringraziamenti da parte delle tasche dei sudditi di Sua maestà. Benvenuti nel 2010.

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