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Le banche promosse rilanciano le Borse

Pretende di essere valutata sul medio-lungo periodo ma non riesce a vincere la guerra dei rendimenti nemmeno rispetto ai «sicuri» titoli di Stato: negli ultimi dieci anni l’industria italiana del risparmio gestito ha distrutto, in termini di valore, oltre 120 miliardi di euro a confronto con i Bot. A mettere dietro alla lavagna i Signori dei fondi è l’ufficio studi di Mediobanca nella consueta, quanto impietosa, analisi estiva sul settore: 1.012 i prodotti passati al setaccio, pari a oltre il 94% in termini di patrimonio.
A dire il vero il 2009 ha segnato un’inversione di tendenza: il sistema ha reso (6,1%) più del doppio rispetto a Bot ormai incapaci anche di contrastare l’inflazione, e dopo la batosta della crisi il risultato di gestione è tornato positivo per 13 miliardi, recuperando poco più della metà della perdita dell’anno precedente. Ma in Piazzetta Cuccia temono si tratti di un segnale sporadico, destinato a squagliarsi, vista la stagione, come un gelato al sole.
A impensierire è anche il fatto che il sistema non abbia ancora riguadagnato le posizioni raggiunte prima della crisi, anche se è indubbio che stia cercando di tornare a galla: l’asta del rendimento si è posizionata al 5,8% (grazie al recupero dei titoli in portafoglio) e, per la prima volta dal 2004, il patrimomio è cresciuto (più 4,5%) seppur inferiore del 60% rispetto al picco toccato nel 1999.
Le zone d’ombra sembrano però prevalere, a partire dal fatto che, contrariamente a quanto avviene nel resto d’Europa, in Italia i riscatti continuano a prevalere sulle sottoscrizioni (sia pur per «soli» 3,6 miliardi). La situazione pare inoltre essere andata peggiorando nei primi sei mesi di quest’anno quando Mediobanca stima un deflusso di 10,2 miliardi e una performance dei fondi sostanzialmente nulla.
La responsabilità è sia delle banche, che controllano la gran parte dell’industria del risparmio gestito ma chiedono agli sportelli di vendere altri prodotti più «redditizi» per i propri bilanci, sia degli stessi risparmiatori che paiono aver perduto lo slancio di fiducia verso i fondi. Il risultato è un’industria del risparmio lillipuziana, che relega l’Italia al decimo posto nel mondo, surclassata anche dal Brasile che ottiene la sesta posizione ed è il primo tra i cosiddetti «Brics». Tra le ragioni del «nanismo» italico (l’incidenza sul Pil è pari al 13% contro il 42% del 1999) c’è anche un fisco non certo favorevole che continua a indurre i gestori a traslocare all’estero; soprattutto nel Granducato, dove gli utili sono tassati al momento del realizzo e non alla maturazione come avviene nella Penisola. Da qui il fenomeno dei prodotti esterovestiti, i cosiddetti «roundtrip». I problemi però sono altri, come si evince dall’aumento dei costi, pur in presenza di rendimenti modesti. A pesare sono le commissioni di incentivo, quelle che le Sgr incassano quando battono il benchmark: il costo medio è stato pari all’1,2% del patrimonio, che sale al 2,7% per i prodotti azionari, mentre le commissioni sono state complessivamente 2,7 miliardi. Senza contare che la gran parte del patrimonio continua a essere «immobilizzata» in titoli di Stato e obbligazioni (63%), i prodotti meno rischiosi e per i quali è in linea teorica minore il valore aggiunto della consulenza; mentre il peso delle azioni è salito dal 10,8% al 14,1 per cento.

Lascia, tuttavia, ben sperare la netta riduzione della velocità con cui i gestori «girano» il portafoglio per cambiarne il mix: ora impiegano 10 mesi, contro i 6,5 mesi precedenti, ma il dato è ancora lontano dai due anni medi dei fondi americani.

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