Economia

Banche Usa già a caccia di capitali La Corporate America licenzia di meno

Adesso che perfino le banche Usa finite dietro la lavagna per scarsa resistenza agli stress test non si sono poi rivelate fragili come un grissino, è il momento del grande sospiro di sollievo collettivo, quasi modulato sui ritmi di una ripresa che ancora non c’è, ma i cui primi sintomi si possono intuire nel rallentamento dell’emorragia di posti di lavoro nel mese di aprile. E per gli istituti in deficit di solidità, è già ora di rimboccarsi le maniche per raccogliere il necessario: altri miliardi, questa volta però senza più batter cassa allo Stato. Un sollievo tanto per i contribuenti, quanto per i mercati, il cui timore era che dalle prove sotto sforzo condotte dalla Fed potesse emergere l’inefficacia dei piani di sostegno governativi. O, peggio ancora, spuntare qualche bollino nero dell’insolvenza. Tranquilli, ha rassicurato il presidente della Fed, Ben Bernanke, «tutte le banche sono solvibili».
Uscire dallo stress Il verdetto giunto nella tarda serata di giovedì ha confermato che dieci delle 19 banche esaminate abbisognano di 74 miliardi. Sotto il profilo psicologico, è una cifra ampiamente metabolizzata dalle Borse: è vicinissima alle indiscrezioni circolate nelle ultime settimane, e non appare nel complesso una somma monstre. Come noto, sarà Bank of America a dover sopportare il carico maggiore, con 34 miliardi da reperire. Ken Lewis, la cui poltrona resta comunque pericolante anche dopo la fresca riconferma (le accuse rivolte a Sec e Tesoro per la gestione dell’affaire Merrill Lynch non gli hanno certo giovato), ha già predisposto un piano di azione: «Ci hanno chiesto di raccogliere nuovo capitale e lo faremo. Diciassette miliardi contiamo di incassarli emettendo nuove azioni comuni, mentre altri dieci miliardi verranno dalla cessione di asset». Lewis ha invece liquidato come «infondate» le voci di un possibile spezzatino della banca. Anche Wells Fargo non sembra aver perso tempo, e secondo Bloomberg avrebbe già coperto un aumento di capitale per 7,5 miliardi, la metà di quanto necessario. «Meglio del previsto» si è inoltre conclusa l’operazione con cui Morgan Stanley ha rastrellato 3,5 miliardi, più dei due miliardi pianificati. Restano due big, Citigroup e Gmac. La prima, che deve reperire 5 miliardi, non si è ancora pronunciata. L’altra, ex “colonia” di General Motors trasformatasi in holding bancaria per poter accedere ai fondi governativi, è l’eccezione: sarà ancora costretta a rivolgersi alle casse federali per far fronte a un aumento di capitale da 11,5 miliardi.
Le Borse ci credono Come si è visto, le banche uscite dal check up hanno evitato di seguire la strada della conversione dei titoli privilegiati in azioni ordinarie. Questa era una delle opzioni prospettate da Bernanke. È stata invece scelta quella più rischiosa, cioè il ricorso al mercato dei capitali. E senza esitazioni. Gli annunci sulle ristrutturazioni sono infatti arrivati a poche ore di distanza dalla diffusione dei risultati, nonostante che le banche avessero a disposizione un mese per comunicare le proprie strategie e sei mesi di tempo per realizzarle. E le Borse, ieri, una prima risposta l’hanno data: l’Europa ha viaggiato sui binari di un rialzo compreso tra l’1,44% di Londra e il 3,51% dell’indice S&P a Milano (+2,81% il Mibtel), mentre a Wall Street il Dow Jones ha incassato un guadagno dell’1,96% e il Nasdaq dell’1,22%. Nessun contraccolpo è stato provocato dalle trimestrali di Fannie Mae (perdita di 23 miliardi), Aig (rosso di 4,4 miliardi) e Royal Bank of Scotland (-595 milioni di euro).
Luci e ombre sull’America «Siamo ancora nel bel mezzo di una recessione». Riportata così, è un po’ monca la frase pronunciata ieri da Barack Obama. Il presidente commentava i dati sull’occupazione di aprile, da cui risulta una perdita di 539mila posti di lavoro, il calo più basso dell’ultimo semestre. «Il dato è in qualche modo incoraggiante», ha infatti aggiunto Obama.

Restano però le ombre: la revisione al rialzo degli indicatori di febbraio (681mila) e marzo (669mila), i 5,7 milioni di posti bruciati dall’inizio della recessione e un tasso di disoccupazione salito all’8,9% (massimo da 25 anni), a segnalare la riluttanza ad assumere da parte della Corporate America.

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