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La banda (sinistra) dell'ingratitudine

Emergency, i tre operatori rientrano in Italia ma rifiutano il volo di Stato. Si ripete il copione già visto con la Sgrena e le due Simone: freddezza e sgarbi nei confronti del governo. I punti ancora oscuri della vicenda

La banda (sinistra) dell'ingratitudine

In pubblicità c’è l’uomo che non deve chiedere mai. Nella realtà quotidiana del Belpaese impera invece la banda degli ingrati, la “sinistra” cricca capace di pretendere sempre e non ringraziare mai. Gli ultimi eccoli qua, sono i tre moschettieri del Gino Nazionale felici di essere liberi grazie alla nostra diplomazia, gioiosi di dormire tra le mura di un’ambasciata anziché dietro le sbarre di una segreta, ma assolutamente refrattari all’idea di metter piede su un volo di Stato.

Assolutamente indisponibili a mescolar i loro quarti di nobiltà con quelli dei rappresentanti di uno Stato da snobbare e di un governo da disprezzare. Certo a volte ce n’è bisogno. A volte di ministri e servizi segreti non si può far a meno, ma Dio ci guardi dall’ignominia di sedere al loro fianco, dalla nefandezza di stringerne le mani, dalla mortificazione di regalar loro un grazie. Certo Gino Strada e i suoi amici in quella parte ci sguazzano. In fondo la recitano dai gloriosi anni Settanta quando se erano in cinque tiravano fuori le spranghe e gridavano “basco nero il tuo posto è al cimitero” se erano soli salutavano, sorridevano e se la battevano a gambe.

Cambiano i tempi, ma la sfrontatezza, la boria e la convinzione di esser al di sopra di ogni regola restano la stesse, si tramandano come un gene cocciuto e inguaribile di padre in figlio. Così - quando non risuona la voce impastata del Gino nazionale - ecco riecheggiare quella garrula, ma altrettanto “politically correct” delle due Simone. Le ricordate? Era il 2004 e i nostri 007 avevano appena finito di sudare le proverbiali sette camicie per salvar loro il collo consegnando ai rapitori qualche milione di dollari. Ma per le tronfie e vispe reduci dalla Mesopotamia delle Meraviglie erano bazzecole. Le loro prime parole furono un caldo sincero e commosso ringraziamento al popolo iracheno. Per il governo italiano e i suoi servitori manco un fiato. Quando qualcuno lo fa notare cambiano registro, ma non appena Giuseppe d’Avanzo di Repubblica chiede almeno una scontata e dovuta condanna del terrorismo Simona Pari non transige. «La lotta di resistenza di un popolo per liberare il Paese occupato è garantita dal diritto internazionale. Il terrorismo uccide indiscriminatamente anche i civili. Condanno il terrorismo. Nessuno può chiedermi di condannare una lotta di resistenza». Si sente, insomma, più vicina a chi voleva sgozzarla che a chi l’ha liberata.

La vera campionessa d’ingratitudine, l’ineguagliata paladina dell’irriconoscenza resta però Giuliana Sgrena, la giornalista del manifesto la cui liberazione costa, oltre ai soliti spiccioli, anche la vita dell’agente Nicola Calipari. L’allegra sicumera con cui la Sgrena trasforma il proprio ferimento e la morte di Calipari in un complotto fanta-politico ordito da Washington è nulla rispetto alla parte recitata negli studi di Sky durante una trasmissione televisiva in cui è ospite assieme a chi scrive. Sotto gli occhi increduli dell’allora conduttore Corrado Formigli la Sgrena impone di non mettere in onda il filmato del suo arrivo all’aeroporto di Ciampino in cui la si vede scendere dall’aereo tra le braccia dell’agente del Sismi Marco Mancini. Quella sequenza di lei sofferente aiutata e sorretta da un uomo accusato di aver partecipato al rapimento del cittadino egiziano Abu Omar offende - ripete quella sera la Sgrena - la sua dignità di professionista dell’informazione.

La stessa dignità professionale che un’altra volta la spinge a definire mercenario immeritevole di medaglie e ricordo il connazionale Fabrizio Quattrocchi ucciso in Irak mentre gridava «Vi faccio veder come muore un italiano». Lo sdegno e il disprezzo di Giuliana Sgrena hanno però la memoria corta.

Quando si trattava di implorare la sua liberazione i suoi amici non provavano certo simili vergogne. In quei giorni i suoi colleghi trovavano assolutamente naturale transitare dalla sede del manifesto agli uffici di governo dove gli uomini della Farnesina e dei servizi segreti tessevano incessantemente la trama della sua liberazione. Ad obbiettivo raggiunto ecco pronto, invece, il voltafaccia. Il direttore del Sismi Nicolò Pollari e l’agente Marco Mancini diventano degli intoccabili, degli innominabili, dei relitti umani da gettare e calpestare come mozziconi spenti e puzzolenti. È la regola dell’usa e getta, è la dottrina madre dei salotti della gauche caviar. Una regola eretta a dottrina di vita e linciaggio da quel vangelo dell’intellighenzia chiamato Repubblica.

Un quotidiano smanioso di vedere all’opera spie e agenti segreti quando l’obbiettivo è ottenere la liberazione dell’inviato Daniele Mastrogiacomo rapito in Afghanistan, ma altrettanto pronto - nel frattempo - a distruggere l’immagine di Nicolo Pollari, il direttore che tra il 2001 e il 2006 ridiede lustro e spessore all’immagine nazionale e internazionale dei nostri servizi segreti.

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