BANDITI La legge è disuguale per tutti

Da Robin Hood ai briganti dell’Italia del Sud: in un saggio di Raffaele Nigro cronache, atti processuali, ballate e diari illustrano il mondo dei più noti delinquenti della storia

Briganti, banditi, masnadieri, sbandati, ladroni, ribelli, cangaceiros. Comunque li si voglia chiamare, sono loro i protagonisti dell’opera di Raffaele Nigro Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri (Rizzoli, pagg. 698, euro 26). Un «tentativo di storiografia ragionata» che mira a dare il giusto peso a un fenomeno mai considerato «fondamentale per i mutamenti della storia».
Il metodo usato è la comparazione di culture e arti diverse, con la raccolta di notizie dalle fonti più disparate: cronache, carte processuali, fiabe e ballate popolari, foglietti volanti di cantastorie, commedie, melodrammi, quadri, film, giornali, diari, romanzi.
Partendo da Robin Hood, e scoprendo che solo nel 1632 egli acquisì quella personalità di generoso difensore dei deboli che in seguito sir Walter Scott e Hollywood ci avrebbero trasmesso. Fino ad allora, nei molti poemi, ballate, canzoni popolari, commedie che ne avevano raccontato le gesta, era rimasto più vicino alla realtà storica del rapinatore, truffatore e omicida Robert Hood registrato tra i fuggitivi da Cirencester Abbey nel 1225.
La storia pullula di briganti, reali o immaginari. La Francia ha Cartouche, Gil De Reys, Mandrin, la Germania Schinderhannes, la Spagna i bandoleros, l’Europa orientale gli hajduti, l’America del Nord i fuorilegge come Billy the Kid e Jesse James, il Nordeste brasiliano i cangaceiros. Ma anche Cina e India ne furono infestate, come testimoniato da un poema del XIII secolo e dagli avventurieri e dai padri gesuiti spediti da quelle parti secoli dopo.
Ma è forse l’Italia a vantare il record nella categoria. Tra i più noti stanno sicuramente i «bravi» cui si ispirò Manzoni. Seguono Gasparoni, Masi, Salvatore Giuliano, Stefano Pelloni detto «il Passatore». Ai primi dell’Ottocento i viaggiatori stranieri a caccia di esotismo - alcuni dei quali furono rapiti e lasciarono i diari della loro prigionia - ci affibbiarono l’appellativo di «paese dei briganti». Il momento di massima «fioritura» fu a fine Ottocento, durante il travagliato processo di unificazione, quando ex ufficiali ed ex soldati del disciolto esercito borbonico scatenarono la guerriglia contro l’esercito regolare. Di quelle battaglie, delle leggi speciali, dei tribunali militari, delle esecuzioni sommarie rimane traccia nei resoconti scritti dai generali impegnati nell’opera di repressione, ma anche nei diari dei protagonisti.
Interessante è anche la differenziazione tra diversi tipi di brigante, e i reciproci influssi tra realtà e finzione. Byron è un ottimo esempio. Creò il «Corsaro», personaggio che incarna un ideale politico; combatté a fianco dei Greci; e a lui si ispirerà Garibaldi, «il più byroniano dei ribelli politici». Più sfortunata la sorte dell’Edmond Dantes di Dumas il quale, pur rappresentando un romantico ideale di giustizia, ispirerà Giuseppe Musolino, feroce brigante calabrese cui viene fatta ascendere la fondazione della ’Ndrangheta.
Il rapporto dei briganti col popolo è sempre stato ambiguo. A differenza degli autori colti, che costruirono figure ideali a partire da spunti reali, la fiabistica popolare mantenne intatta la carica negativa dei briganti, trasformandoli in orchi malvagi. Eppure spesso nella realtà il bandito assumeva perfino tinte positive, in quanto nemico dei nemici storici del popolo, i signori che lo vessavano.
Ma da dove venivano e perché questi uomini diventavano briganti? L’estrazione sociale è generalmente bassa, ma ci sono casi di aristocratici caduti in rovina. La fuoriuscita dalla società è determinata da un atto violento, spesso un omicidio d’onore. Altri moventi furono la ricerca del guadagno facile, la voglia di avventura, il desiderio di emulazione o la follia. Per farsi un’idea delle condizioni mentali di alcuni di loro basta dare un’occhiata ai soprannomi e alle cariche che si attribuirono: «re della campagna», «re delle puglie», «re del sertao», «re del deserto». O ricordare atti di pura megalomania, come quello di Salvatore Giuliano: in una lettera di fine anni ’40 chiese al presidente Truman l’annessione della Sicilia agli Stati Uniti.
Se tra ’800 e ’900 l’editoria popolare ne fece i protagonisti di romanzi truculenti e sentimentali; se durante il ventennio fascista furono ridotti a macchiette ridicole; se l’ideologia sessantottina volle glorificare alcuni di loro come antesignani di Che Guevara, e alcune brigantesse come antesignane del femminismo, oggi i briganti sono diventati innocui protagonisti di film e di musical. Eppure il loro fascino sopravvive, e in diverse regioni del Sud vengono tuttora festeggiati in sagre popolari.

L’autore accenna perfino ai terroristi islamici alla Bin Laden come eredi di tali figure. In attesa di ulteriori sviluppi bibliografici, non resta che augurarsi di poter raccontare un giorno le storie di questo inizio millennio come fossero fiabe. Terribili come tutte le fiabe, ma a lieto fine.

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