Baricco, i Barbari e il virus dell’antiromanzo

Nelle osservazioni sui «nuovi barbari» pubblicate sulle pagine di Repubblica, Alessandro Baricco rivela a sorpresa un’indole antiromanzesca. Al contrario infatti dei romanzieri, che hanno bisogno di assegnare un ruolo di vilain, lo scrittore di Seta attribuisce la paternità delle varie forme di barbarie, dalla crisi del Barbaresco a quella del contropiede fino all’argomento dell’articolo apparso ieri, la crisi del romanzo di qualità, non alla deliberata volontà dei malvagi, bensì a fenomeni impersonali, alla «congiuntura», come si diceva una volta. Si tratta di uno stile interpretativo ispirato alle pagine di Marx, di Nietzsche, di Durkheim e di Freud grazie al quale si può spiegare tutto, dalla Cappella Sistina all’Olocausto, beffando il problema dei diritti d’autore e di ogni altra individuazione di responsabilità. È un metodo che a volte permette analisi molto acute, ma a patto di sincerarsi che vi sia davvero congiuntura, e una congiuntura salda, priva di crepe.
Baricco esordisce affermando che la qualità dei romanzi di cinquant’anni fa non era il frutto del rigore morale di romanzieri, editori e critici letterari, ma di un mercato ristretto e molto esigente. Se per esempio Einaudi avesse pubblicato gialli dozzinali, non avrebbe venduto. La tesi è accettabile. Un giorno il vecchio Mondadori incrociò Giancarlo Buzzi in un corridoio. Era molto preoccupato, gli chiese su due piedi cosa pensasse dell’imminente pubblicazione da parte della casa editrice dell’illeggibile romanzo di Giàis, Giès, Giòsis... «Joyce», precisò Buzzi. «Sì, Joyce», disse l’editore. «Perché vede, caro Buzzi, noi siamo sul libro d’oro delle banche. Non ci vuole molto a finire sul libro di stagno...».
Baricco nota che alla fine degli anni ’50, non appena il mercato si allargò grazie ad un’impennata del numero degli alfabetizzati, gli editori presero a stampare libri sempre meno colti e raffinati. È vero: al ballon d’essai del Gattopardo si aggiunsero presto La ragazza di Bube di Cassola e Il giardino dei Finzi-Contini, famigerata triade stigmatizzata da Asor Rosa, sicché quando a Roma si presentò il libro di Bassani e lo si accostò alla Recherche, Arbasino udì qualcuno canticchiare «Non c’è gust/ a vivere in un paese/ dove confondono Bassani con Proust». Qui però c’è già qualcosa che non quadra: perché il genere romanzo, che nel Settecento leggevano «solo le serve», diventa due secoli dopo una forma d’arte, e una delle più elitarie?
Baricco conclude con la tesi che tra «commercializzazione spinta e massacro della qualità non c’è nesso». Lo sapevamo; è che la qualità (serviamoci per inerzia di questo termine vieto e polverosamente aristotelico) non è massacrabile.

Per esempio «Gadda non sa scrivere» non è un giudizio su Gadda, ma sulla competenza di chi ha proferito una simile sciocchezza, ed equivale a «Io non capisco nulla di letteratura». Vogliamo dire che l’arte vera non si usura; muore come morirebbe Atena se un giorno decidesse di rientrare tutta intera nella testa di Giove.

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