Baronetto Ferguson il vincente più feroce spinto dalla passione

C’è una parola che ricorre nelle celebrazioni in onore di Sir Alex Ferguson: passione. Quella che ripete di continuo lo scozzese: «Lavorare senza passione significa non lavorare». Quella che gli invidiano tutti, all’unisono ex allievi e tecnici rivali. Quella che lo accompagna da 25 anni sulla panchina del Manchester United. Nozze d’argento per Sir Alex. Un matrimonio di soli superlativi. Il manager più longevo, il più titolato, il più ferocemente vincente. Con gli anni – il 31 dicembre ne compirà 70 - si è un po’ addolcito, più accondiscendente forse, paziente magari. E il celeberrimo hairdryer ormai lo riserva alle occasioni speciali. Non come in passato, quando i suoi giocatori indugiavano dopo una sconfitta al rientro negli spogliatoi. Conoscevano già la scena per averla vista troppe volte: Fergie che sbraita a mezzo centimetro con occhi iniettati di sangue. O peggio. Una volta a Beckham ruppe il sopracciglio calciando una scarpa. Un padre-padrone a volte feroce ma anche comprensivo, assoluto Signore dell’Old Trafford.
«Non si muove foglia che...». Allo United è proprio così. Perché Sir Alex svolge un controllo asfissiante su ogni attività del club, difficile immaginare persino un rincaro dei biglietti senza il suo consenso. Autorevole e autoritario. Antico e modernissimo. Soprattutto capace come nessun altro di rinnovarsi senza mai tradirsi. Nè tradire le sue convinzioni calcistiche. Rischiare coi giovani, imporre sempre il proprio gioco, non accontentarsi mai. Dieci minuti dopo la finale persa con il Barcellona lo scorso maggio già rilanciava. Affranto ma non battuto. Anzi, pungolato da una nuova sfida, quella che allontana a data da destinarsi la pensione.
Finché sarà sorretto dalla salute – ha giurato - non mollerà. Non certo una minaccia, piuttosto la benedizione per un club che con lui è rinato. Di più. Perché il 6 ottobre 1986, quando Ferguson viene chiamato, i red devils sono penultimi. Costretti a mangiare polvere dagli arcinemici del Liverpool. Il suo arrivo non fa notizia. Nato a Govan, sobborgo popolare di Glasgow (da qui le simpatie laburiste), Ferguson vanta un anonimo passato da attaccante e un discreto palmares alla guida dell’Aberdeen. E all’esordio viene pure sconfitto ad Oxford. Per il primo acuto bisogna attendere il 1990, Coppa d’Inghilterra, dopo aver rischiato l’esonero. Ma la vera svolta, dopo la Coppa delle Coppe 1991, arriva l’anno successivo. Nasce la Premier League alla quale si lega indissolubilmente lo stellone dello scozzese. Da lì in poi è solo un conteggio da pallottiere (37 trofei). Dodici campionati, cinque Fa Cup, quattro Coppe di Lega. Una collezione di supercoppe ma anche i trionfi europei. Troppo pochi per Sir Alex, il suo unico cruccio. Comunque, due Champions League e due mondiali per club. Lo scorso anno ha superato il primato di panchine di un’altra leggenda del Teatro dei Sogni, Sir Matt Busby, condottiero della prima Coppa dei Campioni dopo il disastro di Monaco. Domani contro il Sunderland festeggerà la partita numero 1410 (60% di vittorie). Calcio, ma non solo. Lettore appassionato di storia, raffinato intenditore (e collezionista) di vini (rigorosamente rossi), comproprietario di un allevamento di cavalli da corsa.
Passioni tenute lontano dagli occhi indiscreti dei media. Come la prima Premier League. «Ero alla buca 17 del Mottram Hall (un golf club di Manchester, ndr) quando uno sconosciuto mai visto mi abbraccia dicendomi che l’Oldham aveva appena battuto l’Aston Villa.

Il Manchester United era campione d’Inghilterra dopo 26 anni. Non dimenticherò mai la corsa alla buca 18. Non c’era neppure uno scoiattolo ad applaudirmi. Ma non mi importava nulla, eravamo campioni». Cento di questi giorni, Sir Alex.

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