Controstorie

Basilea, l'altra Svizzera che cresce e vive di arte

Mecenati, collezionisti, musei: la città ha sempre investito in cultura. Che è il vero oro del Reno

Basilea, l'altra Svizzera che cresce e vive di arte

Lucia Galli

da Basilea

Elia esce dall'acqua ed estrae dall'ermetica wickelfisch i vestiti asciutti: due minuti ed è pronto a tornare in ufficio. Nora, invece, inquadra con lo smartphone mattonelle colorate appiccicate, ad arte, su un muro del centro e sentenzia felice: «Questo è un Invader autentico». Non è il sequel di Blade Runner, ma sono flash di una tipica pausa pranzo a Basilea. O la regina, se preferite, dato il nome. Lungo il Reno tutto è arte. Lo è nuotare, cullati dalla corrente, indossando un must di design, come quella borsa galleggiante a forma di pesce, in cui riporre abiti, tablet e appetito, sacrificando, nel nome del fitness, una calorica zwiebelwaehe (torta alle cipolle). Ed è arte anche quella che si arrampica sui muri. Arte urbana o street art, Basilea abbraccia tutti. Qui si svolge ogni giugno Art Basel, Die Messe, la fiera per eccellenza. Qui libertà è chiedere permesso per lasciare la propria firma sui muri. Un paradosso? In Svizzera funziona: i grafiti sono legali, risorsa e non problema. «Chi non ha ancora l'autorizzazione, attacca adesivi con le proprie tag», spiega Sebastien Portron di Artstuebli. Nel suo atelier una vetrina è rotta: la inquadri col cellulare e ti appare un volto, artisticamente scheggiato dall'urban artist Simon Berger. Il giochino del telefono richiama l'applicazione che usa Nora, studentessa d'arte, per dare la caccia ai fake: uno dei suoi writer preferiti, il misterioso parigino Invader, crea murales piastrellati che ricordano i videogiochi anni Settanta. Contro le imitazioni ha creato un QR-code dove carica tutti i suoi lavori. Banksy, no, invece: «Sul lungo Reno sono apparsi due murales, ma abbiamo capito subito che erano falsi». Non come a Zurigo dove, lo scorso gennaio, un presunto Banksy è stato anche protetto da un pannello in plexiglas, «la beffa di due giornalisti!», ironizza Portron. Campanilismo svizzero? Non serve, perché Basilea è la prima della classe: qui è sorta la prima università elvetica nel 1460; qui è arrivata la prima ferrovia nel 1844. Il catalogo delle eccellenze prosegue eterogeneo: qui ha allenato il suo micidiale rovescio a una mano Roger Federer, come ricorda una stella d'inciampo hollywoodiana in via Spalemberg. Qui, soprattutto, ha aperto il primo museo pubblico del mondo, grazie a un nucleo di opere degli Amerbach, raffinata gens di stampatori che ha contribuito a quel Rinascimento del Nord che, alla dolcezza di Raffaello ha preferito il realismo degli Holbein. Così dal 1661 il Kunstmuseum vanta il primato elvetico per la collezione d'arte più grande. «Merito del calvinismo e di Picasso», sentenzia Elia, tornato in abiti civili. La storia chiarisce tutto. A Calvino si deve il fatto che chi ha molto, da queste parti, investe di più. «E Basilea ha sempre reinvestito nell'arte e nel suo futuro il supporto dei suoi mecenati». Banchieri, collezionisti, 850 fondazioni e anche un agronomo illuminato: si chiamava Christoph Merian e da metà Ottocento il suo lascito alla città - 300 milioni di franchi e 900 ettari - non si è ancora esaurito. Anzi, dove un tempo sorgeva il suo latifondo, sta nascendo la Basilea di domani: è il Dreispiz, fra start up sistemate in vecchi container, un tempio indù e avveniristiche costruzioni per studenti e giovani. Che sarebbero gli stessi che 52 anni fa scesero in piazza per Picasso, al grido di All you need is Pablo. La città stava per perdere due dei suoi quadri più belli: il magnate Peter Staechelin doveva fronteggiare il disastro della sua compagnia aerea. Così, prima vende un Van Gogh e poi ci prova con l'Arlequin assis e con Le deux freres del genio di Malaga. Tutti si oppongono: la contea di Basilea mette sul piatto 6 milioni e altri 2,5 vengono raccolti con l'antenato del crowdfunding. Morale? I quadri non si sono mossi dal Reno e, anzi, Picasso regalò altre opere alla città dove persino i colossi farmaceutici di Roche e Novartis si sono scoperti un cuore da mecenate. Basilea, in fondo, ha sempre coccolato i suoi big. Fra loro c'era anche Erasmo da Rotterdam, Vir omnibus modis maximus come si legge sulla sua tomba del muenster: ha due campanili slanciati su una piazza silenziosa, dove pedalano bimbi con caschetto e gote rosse. Da mille anni esatti il duomo è il simbolo della città e non teme il confronto con lo skyline moderno plasmato dalle archistar. Jacques Herzog e Pierre De Meuron - che a Milano hanno ideato la fondazione Feltrinelli - sono profeti in patria e dal loro studio di Rheinschanze è uscita e uscirà buona parte della Basilea che è e sarà. Mauro Botta ha plasmato il museo dedicato a Jean Tinguely, estroso scultore, figlio acquisito della città. Renzo Piano ha firmato la fondazione Beyeler, il museo più visitato della Svizzera. Una ciclabile nel verde collega questo museo al campus Vitra - sì, quello della poltrona Panton - mecca del design, ideata da Frank Gehry. Sindrome di Stendhal? Dove sono i cucù, Heidi e la neve? «Anni fa - ricorda Nora - un amico non si capacitava che non vivessi fra le mucche, mangiando cioccolato. Invece l'altopiano dello Jura ci separa dai monti e da tutti i cliché svizzeri: abbiamo sempre guardato a nord, a Francia e Germania, così vicine». Che fu dell'amico? Nora sorride: «Alla fine gli dissi che la mia mucca si chiamava Elizabeth».

Elia sorride, allora s'innamorò all'istante di lei, di Basilea e dell'oro del Reno.

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