Se chiedi a un ragazzino: «Cosa farai da grande?», stai sereno che otto volte su dieci la risposta è: «Il cuoco». È il mestiere del momento. Sono lontani i tempi in cui i bambini aspiravano a pilotare l'aereo o addirittura l'astronave. Oggi preferiscono i fornelli alla cloche, il grembiule candido e la toque all'uniforme di capitano o alla tuta spaziale. Le iscrizioni alle scuole alberghiere hanno registrato un boom. Una massa crescente di adolescenti acneici guarda affascinata mestoli e pentole e sogna un futuro in cucina a spadellare.
Da quando l'Italia è in crisi e i consumi alimentari sono diminuiti, tant'è che la mensa più frequentata è quella della Caritas, i cittadini pensano ossessivamente al cibo e a come rimpinzarsi di tagliatelle, stufato e tiramisù. La globalizzazione della miseria fa brutti scherzi: stimola l'appetito. Si è poi affermata l'idea che il nostro Paese affamato, in cui l'agricoltura è stata ridotta a Cenerentola dell'economia patria, debba affidarsi per risorgere all'agroalimentare. Non è un caso che l'Expo di prossima apertura sia dedicato al settore: ci illudiamo tutti che la pommarola, tanto disprezzata in passato (emblema del terronismo), compenserà il declino industriale. Il motto è: Dio salvi gli spaghetti e la pizza.
Un deciso contributo al successo inatteso della cultura dei sapori, forti o delicati che siano, è stato dato dalla tv, manco a dirlo, dove trionfano a qualsiasi ora del giorno programmi - tutti uguali - riservati all'arte culinaria, a competizioni tra chef (professionisti o dilettanti) che ottengono ascolti importanti, in grado di attirare molta pubblicità.
Come accendi il televisore, compaiono sul video personaggi indaffarati a spezzettare verdure, impanare costolette e a rompere le uova, anche in senso metaforico. Non potendoci saziare di manicaretti, ci abboffiamo di immagini; ma a forza di ingurgitarne abbiamo fatto indigestione e imploriamo le antenne di sospendere la somministrazione digitale di piatti succulenti. Non sopportiamo più i cuochi. Dateci una dose massiccia di Alka Seltzer, abbiamo bisogno di fare due ruttini.
Ormai però i quarti di bue sono fuggiti dalla stalla ed entrati nella nostra vita e non ce ne libereremo facilmente. I giovani e gli adulti (e i vecchi) considerano gli esperti di omelette, veri o presunti, mirabili star. Li invidiano. Ne conoscono le biografie, gli studenti intendono seguirne le orme convinti che, dopo la maturità alberghiera, diventeranno famosi come Carlo Cracco, Andrea Berton, Gualtiero Marchesi e Davide Oldani; guadagneranno monti di denaro e si spalancheranno loro le porte degli studi televisivi. Ingenui. Ignorano che se dieci cuochi hanno sfondato, perché eccellenti, cento sono affondati in trattoria e sgobbano da mattina a sera alla friggitrice. E la notte, quando cessano di lavorare, puzzano di olio bruciato.
Ogni stagione ha i propri divi. Quella in corso ha promosso tali i cucinieri, e la tv li ha consacrati. Accade perfino che i giornali riportino la polemica tra Cracco e i suoi colleghi, perché don Carlo ha osato mettere l'aglio nella amatriciana: ciò che i cittadini di Amatrice giudicano un sacrilegio.
Ed è avvenuto perfino che Benedetta Parodi, dedita a divulgare ricette, abbia superato in popolarità la sorella Cristina, che era la principessa delle conduttrici da piccolo schermo. Cuochi e affini sono alla ribalta. Quando toccherà agli idraulici e ai gommisti essere adorati?
uno chef che ha lavorato in giro per il mondo