Mi riferisco al recente sciopero della stampa e in particolare al trafiletto comparso sul nostro Giornale in cui si precisava che qualche redattore del Giornale aveva scioperato. Non riesco a capire il meccanismo della questione. Lei me lo può spiegare?
Non capisco cosa ci sia da chiarire, caro Amoruso. Non essendo lo scioperare un dovere civile ed essendo un diritto il rifiuto di aderirvi, ciascuno poi ragiona con la propria testa. Si sciopera o non si sciopera perché convinti che sia utile e conveniente - o dannoso e inopportuno - farlo o non farlo. Si può anche non essere daccordo col sindacato eppure assecondarlo per ideologia, disciplina di partito o di associazione di categoria. È quello che è capitato a Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, «giornale comunista», come è specificato nella testata. Sansonetti ha ovviamente incrociato le braccia assieme alla sua redazione, ma esprimendo «forti» critiche al sindacato dei giornalisti e il suo capo Paolo Serventi Longhi per aver disposto la sospensione del lavoro proprio nel giorno della giornata della Pace e relativo corteo arcobaleno (che pertanto lindomani non avrebbero avuto sulla stampa leco che meritava). In segno di protesta Sansonetti ha quindi annunciato di rassegnare - seppure «con dolore» - le dimissioni dalla Fnsi. Come vede, caro Amoruso, quello che lei chiama il meccanismo della questione è molto articolato: ce nè per tutti i gusti, insomma. Potremmo dunque chiuderla qui, ma sarebbe un vero peccato. Nel corso della piccola bagarre seguita al suo gesto, Sansonetti ha infatti espresso una opinione che venendo dal direttore di un quotidiano comunista risulta molto ma molto interessante. Questa: «Cè in giro lidea che combattere la battaglia per la libertà di informazione significa dire tre volte al giorno che Berlusconi è un porco». Naturalmente il direttore di Liberazione giudica bischero sia quello strumento di lotta sia colui che se ne avvale e avrebbe potuto tranquillamente aggiungere che gira vorticosamente anche lidea che dare del porco tre volte al giorno a Berlusconi contraddistingua il giornalista libero da quello servo. Poteva farlo benissimo, perché questa è la tesi di uno fra i più autorevoli e battaglieri giornalisti democratici, Curzio Maltese di Repubblica.
Senta cosa ha scritto: «È difficile spiegare agli stranieri lassoluta mancanza di imbarazzo da parte di migliaia di giornalisti italiani nellessere dipendenti del presidente del Consiglio. I soldi, la carriera non spiegano tutto. Berlusconi non paga meglio degli altri editori, e in compenso pretende una dedizione totale, una rinuncia alla dignità professionale che nessun altro proprietario di tv e giornali si sognerebbe di pretendere». A parte il fatto che se lavesse chiesto a me e non al solito straniero di passaggio, gli avrei consigliato di rivolgersi, per la spiegazione, alla sua collega repubblicona Natalia Aspesi, che da Berlusconi si beccò un sacco di palanche per magnificare la berlusconissima Milano2 (e la magnificò, o se la magnificò!), si può essere più, non so come dire, più curziomaltesi di così? Berlusconi dunque pretenderebbe dedizione totale e abiezione professionale dai giornalisti - chissà cose ne pensa, mettiamo, Maurizio Costanzo - delle aziende editoriali di famiglia. Mentre a Repubblica o alla Stampa tuttaltra musica: lì ciascuno è davvero libero di elogiare, con spontanea dedizione e altissima dignità, De Benedetti o la Fiat e di sostenere gli interessi materiali o politici delluno e dellaltra. Essendo io a busta paga della famiglia Berlusconi da una ventina danni (ramo giornalisti, fra quelli che da maggior tempo passano ogni mese alla loro cassa), a me più che ad altri Maltese lancia dunque laccusa daver rinunciato, per una ciotola di riso, poi, alla mia dignità professionale.
Paolo Granzotto
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