Cultura e Spettacoli

Beatles damerini, Stones sporchi e cattivi

Antonio Lodetti

«Faremo di voi l’esatto contrario dei Beatles, così simpatici, puliti e curati. E quanto più i genitori vi odieranno, tanto più i loro figli vi ameranno». In queste parole del loro manager Andrew Loog Oldham, si riassume l’eterna rivalità tra Beatles e Rolling Stones. Da un lato i ragazzotti di Liverpool, pionieri della rivoluzione beat, prima guardati con sospetto poi santificati dal mondo adulto. Dall’altra i Rolling Stones sporchi e cattivi, amanti della musica nera più sgangherata. I Beatles arrivano per primi; nel ’64 sono già la «miglior band del mondo» nei referendum delle riviste specializzate e il Sunday Times li definisce «i migliori compositori dopo Beethoven». D’accordo non piacciono all’establishment con quelle urla isteriche e quei capelli lunghi, ma almeno loro si pettinano. Gli Stones sono scarmigliati, maleducati, suonano il blues in cantine dove l’odore di birra si mescola al tanfo di urina e Mick Jagger, il cantante, si muove come un ossesso alimentando risse tra mod e rocker. Persino una rivista come Melody Maker scriverà: «Fareste uscire vostra figlia con uno dei Rolling Stones?».
Gli episodi da raccontare sulla rivalità tra Beatles e Rolling Stones sarebbero mille. Meglio la rivoluzione morbida dei Fab Four o il sesso droga e rock’n’roll delle Pietre rotolanti? Come si domanda Georg Diez nella prefazione del libro Beatles contro Rolling Stones. Due modi diversi eppur convergenti di reinventare la cultura rock. Entrambi i gruppi spazzano via il pop da cartolina dei vari Cliff Richard, Bill Fury, Adam Faith. Ma i Beatles - secondo la nota definizione di Tom Wolfe - «lo fanno perché vogliono tenerti per mano», gli Stones «perché vogliono radere al suolo la tua città». Non a caso la beatlemania provoca solo le reazioni isteriche delle ragazzine urlanti; il concerto di Jagger e co. ad Altamont, un morto ammazzato a bastonate dal servizio d’ordine degli Hell’s Angels. Eppure le due band sono partite da basi comuni; i primi dalla Liverpool alternativa che ascoltava il rhythm’n’blues di Bo Diddley e Chuck Berry, i secondi dalla scena blues londinese che attraverso Alexis Korner risaliva a Muddy Waters. Diversi invece sono i modi di interpretare questa musica e le personalità dei singoli. Agli esordi (quando i Beatles erano ancora Quarrymen) Paul indossa pantaloni neri, cravatta nera, camicia e giacca bianca («sembrava andasse a fare la prima comunione», scrive Diez). Mick, in sbarazzino abbigliamento casual, canta versioni stravolte dei classici del blues in piccoli club attirando l’attenzione di Alexis Korner che dirà: «Mi colpì soprattutto il movimento selvaggio della sua testa».
La sfida tra Beatles e Stones però si gioca soprattutto a colpi di dischi. La band di Jagger arriva per la prima volta in vetta alle hit parade inglesi, con Not Fade Away, nell’aprile 1964, quando i Beatles hanno già sfondato in America occupando i primi cinque posti delle classifiche. Da allora è lotta continua. L’anno successivo in aprile Eight Days a Week è al top in Usa, ma in ottobre gli Stones pareggiano con Satisfaction; in ottobre l’America impazzisce per Yesterday e un mese dopo per la stonesiana Get Off of My Cloud e si continua così con una sfilza di numeri uno che alternano brani come Paperback Rider e Paint It Black. Con lo scioglimento dei Beatles (31 dicembre 1970) la battaglia non si è conclusa.

Gli Stones e McCartney cercano ancora di farsi lo sgambetto in una lotta oggi impari, ma che - parola di Diez - giustifica il loro ruolo di «icone postmoderne accanto a Andy Wahrol, Cassius Clay e John Kennedy».

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