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Beirut, i bombardieri spengono Tv e cellulari

nostro inviato a Beirut
Raccontano che ci aveva messo quattro anni - anni di inesausto lavoro ai fianchi del suo superiore diretto, di garbati corteggiamenti dei vertici aziendali, di accorate petizioni al deputato cristiano della sua circoscrizione - per avere quel posto. Ma alla fine ce l’aveva fatta. Suleiman Chidiac, padre di quattro figli, la moglie malata, dipendente della Tv libanese Lbc, aveva infine coronato il suo piccolo sogno: diventare il responsabile dell’impianto per le trasmissioni televisive e di telefonia cellulare piazzato sulla collina di Fatka, quella che domina il porto della cittadina cristiana di Junieh, una ventina di chilometri a nord di Beirut.
Una sorta di sinecura, per Suleiman. Come fare il guardiano del faro, oggi che l’automazione trionfa. Basta controllare che non si guasti nulla, che qualche folata di vento forte non disorienti le antenne, gli avevano detto; e che tutte le spie degli impianti siano accese. Aria fina, lassù. Un filo di radio, un giornale da sfogliare, buono il salario, e l’immensità del mare che si squaderna davanti, per miglia e miglia, su cui far correre i pensieri.
I due F-16 che a metà mattinata gli sono passati sopra la testa non li ha probabilmente neppure sentiti arrivare, Suleiman. Vanno così veloci, quelle macchine infernali, che il rumore lo senti quando hanno abbandonato da un pezzo la verticale della tua testa. E se pure li ha visti, avrà pensato che stessero puntando verso la Siria. «Incursioni limitate», le chiamano i portavoce dell’esercito israeliano. È stato in una di queste incursioni “limitate”, condotta con due soli, piccoli razzetti, che Suleiman Chidiac ieri mattina ha perso definitivamente la vita. Un momento dopo, tutta la zona è stata come sigillata da un immenso tappo mediatico. Via il segnale della Tv Lbc. Danneggiate le antenne di Al-Manar e di Future Tv (la prima è degli Hezbollah, la seconda appartiene alla famiglia dell’ex premier Rafik Hariri, ammazzato nel febbraio del 2005). Muti i cellulari della compagnia Alfa. Poco dopo, nuovo attacco contro le antenne di Jabal Terbol, mentre nel pomeriggio un’altra piccola “operazione limitata” ha cancellato dall’etereo panorama il segnale irradiato dai ripetitori di Jabal Aito, nei pressi di Zghorta, vicino Tripoli. De profundis per il digitale.
Prove generali del black out che scatterà il giorno X, si dice nei caffè ancora aperti della capitale, quando le divisioni israeliane ammassate al confine meridionale scateneranno l’attacco di terra, e gli hezbollah resteranno muti e ciechi, come talpe nei loro cunicoli, senza tv che ne orienti le mosse e senza cellulari per tenersi in contatto una cellula con l’altra.
Gli unici che resistono impavidi, rischiando ogni giorno la pelle, sono quelli di “Al Manar”, la Tv degli Hezbollah. Entrata in clandestinità dopo la distruzione del palazzo di cinque piani che ne ospitava gli uffici e la redazione, la struttura di Al Manar funziona ancora egregiamente. Talk show, notiziari ogni ora, e nei tempi morti qualche documentario e canti nazionalisti.
Dove si sia trasferita la redazione è un segreto custodito ancor più gelosamente di quanto non lo sia stato il terzo segreto di Fatima, per ovvi motivi di sicurezza. I suoi ripetitori, puntualmente abbattuti, rispuntano il giorno dopo, come l’araba fenice, in una sorta di impavido braccio di ferro con l’intelligence israeliana e la sua raffinata costellazione di satelliti. «Siamo tutti ai nostri posti - ha raccontato il direttore della Tv a un giornalista di L’Orient Le Jour -. Ho chiesto ai colleghi e ai tecnici di dividerci in turni, ma non ne vogliono sapere. Vogliono essere tutti al loro posto. Non è più un lavoro. È una missione. Lo stesso vale per l’équipe tecnica. Sarebbe più prudente aspettare un po’, gli ripeto, dopo un attacco dell’aviazione che ci abbatte ripetitori e’ antenne. Ma non c’è niente da fare. Finito il primo allarme eccoli già all’opera, per riparare o sostituire quel che ci hanno scassato».
L’attacco di terra, si sussurra intorno alle banchine del porto dove gli unici navigli in movimento sono quelli che evacuano gli stranieri, potrebbe essere questione di giorni, se non di ore. I sette carri armati Merkava che ieri pomeriggio sono penetrati in profondità nella zona del villaggio di confine di Maroun al Ras hanno compiuto un’altra “operazione limitata”, certo. Anche l’appello lanciato ieri dagli israeliani a quanti sono rimasti ancora nelle loro case, nel profondo sud, perché si ritirino immediatamente al di là del fiume Litani (20 chilometri a nord del confine con Israele) potrebbe essere un bluff, si capisce. Ma nessuno se l’è sentita di andare a “vedere” il gioco di un avversario frustrato e imbestialito dalla pochezza dei risultati raggiunti. Auto, pullmini, trattori, carretti si sono riempiti in fretta di uomini e cose.

E un altro fiume di profughi che issavano lenzuola, camicie, tovaglie che avevano il bianco colore della paura ha preso la via del nord, andando a ingrossare le file dei disperati che premono su una metropoli dove il latte e la farina, denuncia la Caritas, cominciano a diventare merci rare, e dove i prezzi hanno deciso di andare a vedere da vicino che facce hanno i piloti dei caccia con la stella di David.

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