Per il film che ieri ha aperto, fuori concorso, la prima Festa del cinema di Roma, Bella cerca bestia per realizzare mito sarebbe più efficace di Ritratto immaginario di Diane Arbus, perché in Italia la Arbus, morta nel 1971, ha una notorietà settoriale. Invece questo Fur di Steven Shainberg parla di emozioni generali, sebbene in una variante elitaria come lamour fou: quello adulterino duna moglie (Nicole Kidman) stomacata dal marito (Ty Burrell), asettico esteta che scatta le foto di copertina per Vogue. Per tacita ripicca, lei allora fotografa ogni abnormità umana e soprattutto sinnamora del vicino di casa, affetto da ipertricosi (Robert Downey Jr). Da qui il titolo, che in italiano sarebbe Pelliccia, e che accomuna il mestiere di grandi pellicciai dei genitori di lei al fluente manto che copre lamante.
Con una vicenda così, il morboso è in agguato. Shainberg laveva rasentato volentieri in Secretary (2003), mentre qui se ne tiene discosto. Distilla poi dalla sceneggiatura di Erin Cressida Wilson e dagli interpreti una malinconia che è lomaggio più bello che potesse rendere allarchetipo principale, La bella e la bestia di Jean Cocteau con Jean Marais e Josette Day (1946), ma anche a Freaks di Tod Browning (1933). A ben guardare, nel descrivere corrosivamente il 1958 della borghesia statunitense, Shainberg si collega anche a un altro film da festival, Lontano dal paradiso di Todd Haynes (Mostra di Venezia, 2001).
Oggi sulla quarantina, non ancora risposata quando (primavera 2005) girava Fur, qui la Kidman si libera delle inibizioni meglio di quanto le riuscisse in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick (Mostra di Venezia, 1999). Non tanto per la passeggiata nuda nel parco, dove è inquadrata da lontano, quanto perché ora è capace di interpretare uninnamorata (mentre per Kubrick interpretava una disinnamorata). Quanto a Downey, già deturpato in The Singing Detective di Keith Gordon (2003), qui è riconoscibile solo dagli occhi e dalla voce, che nella versione doppiata andrà, purtroppo, perduta.
Si possono considerare del film anche il rifiuto della bellezza classica, volutamente perpetrato attraverso attori di bellezza classica; o le iniziali incongruenze. Malato terminale, perché lui trasloca? Irsuto quanto si può esserlo, con quali peli può intasare i condotti di casa? Ma la sostanza è, come si diceva amour fou, dal cinema americano raramente reso così bene. Si perdonano allora lungaggini e finali in eccesso.
Si noti: Fur non è uno «scarto della Mostra di Venezia», come quelli che il suo direttore, Marco Müller, sè vantato di lasciare alla Festa. Alla Mostra, Fur non è mai stato offerto. La Kidman è infatti ben memore duna coppa Volpi non datale da Nanni Moretti, presidente di giuria...
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Laltroieri il Parlamento francese ha deciso che dora in poi sia reato negare il genocidio degli armeni da parte dei turchi, togliendo lesclusiva in materia agli ebrei. E ieri, con involontario tempismo, la prima Festa di Roma ha presentato, come primo film in concorso, Armenia di Robert Guédiguian, uno dei film rimasti fuori dallultimo Festival di Cannes. Non è un film di stragi, ma è un film che, senza di esse, non ci sarebbe stato. Marsigliese di nascita, noto come il nuovo Pagnol per aver ripetutamente raccontato la città provenzale, Guédiguian spiazza lo spettatore che ignori le sue radici più profonde. Per giunta, recentemente malato, ma anche felicemente guarito, Guédiguian mescola alla storia remota la memoria recente, proponendo la sua condizione riflessa in quello del padre armeno e malato (Simon Abkarian) di una cardiologa francese (Ariane Ascaride, moglie del regista), che torna nella sua terra prima di un intervento. E la figlia lo insegue per recuperare un rapporto logoro, prima che sia troppo tardi.
È un modo per portare sullo schermo Erevan, capitale armena, e dintorni, ricordandone anche la recente secessione dallUnione Sovietica.
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