La bellissima fragilità che si nasconde dietro ogni vittoria

Segreti e manie degli eroi dello sport nel libro «Sfide» di Simona Ercolani

Sono gli eroi del post moderno, gli unici ancora capaci, escluse le rockstar, del gesto che resta nella memoria, che pietrifica lo stadio nell’urlo della vittoria, che congela i pixel nell’eterna moviola del successo, o della sconfitta dalle lacrime amare. Eppure gli atleti, gli dei della rete che si gonfia, della gomma che stride, del pedale che affatica, non sono solo l’attimo, il movimento in futuristica sospensione. Esistono prima e dopo, portano la loro fragilità di umani al di là dell'asticella, la assaporano nel silenzio che precede lo sparo, nel ticchettio del cronometro.
Qualche esempio? Ondina Valla è stata la prima italiana a vincere una medaglia d’oro olimpica. Lo ha fatto nei giochi di Berlino del 1936, tagliando di forza un fil di lana che nella mente folle dei genetisti di regime significava: superiorità della razza. Sapete costa stava facendo inginocchiata ai blocchi mentre gerarchi e pubblico trattenevano il respiro? Canticchiava mentalmente: «Crapa Pelada la fà i turtei,/ ghe ne dà minga ai sò fradei...».
Dick Fosbury, invece, era uno che saltava le staccionate a forbice, per gioco. Poi si è messo a saltare l'asticella a forbice, intanto il suo allenatore urlava che così non si poteva, che il salto andava fatto di pancia, che il salto a forbice era andato in cantina decenni prima. Lui, però, il ventrale non riusciva proprio a farlo, allora ad una gara, che in caso contrario sarebbe stata come tante altre, ha fatto una follia: è saltato di schiena. L'ha fatto così, perché gli è venuto, mentre tutti quanti ridevano. Hanno smesso di sbellicarsi quando con il suo Fosbury flop (che in inglese suona tanto: «Il fallimento di Fosbury») ha vinto le olimpiadi del ’68. I competenti, seri seri, hanno detto che il suo salto sarebbe stato un cattivo esempio, avrebbe fatto rompere la schiena a migliaia di ragazzini. Una profezia da mistagoghi dello sport fortunatamente fallace.
Storie che gli annali dello sport non riportano, le mettono all’angolo perché non decorano e non aiutano a far aprire i borsellini degli sponsor. Eppure c’è chi si è preso cura di dar loro la caccia, inseguendo qualche vecchia gloria o nuovi eroi un po’ più loquaci degli altri. È Simona Ercolani, autrice Rai. Prima ha fatto un collage televisivo nel programma Sfide, poi da questa miniera di umanità sportiva ha raccolto il meglio in un omonimo libro (Rai-Eri/Rizzoli, pagg. 261, euro 16). Compulsando le pagine si troverà di tutto, dal cuore matto del ciclista Bitossi alle folli scazzottate con gli orsi del pugile Chuck Wepner (uno che ha buttato giù Alì). E in tanta profusione di vicende, a volte buffe, a volte amare, a volte sinceramente commoventi, c’è spazio pure per atmosfere tra la tragedia greca e il pasticciaccio sentimental-piccante. È il caso del ciclista Jacques Anquetil di cui tutti sanno che ha vinto qualsiasi gara, sempre solo contro tutti, sempre odiato dal pubblico francese.

Beh, in molti meno sanno che rubò la moglie al suo medico, che ebbe un figlio dalla figlia della moglie del suo medico e, subito dopo, un altro figlio dalla moglie del figlio della moglie del suo medico. Non avete capito? Pazienza, forse neanche Anquetil, ma in famiglia tutti la presero sportivamente, memori del detto di De Coubertin: «L'importante è partecipare!».

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