Benessere

Irene Vella e l'obesità: "Mi lavavo e mi vestivo al buio"

"Ho deciso che il cibo mi avrebbe fatto ‘da spalla’ quando mio marito si è ammalato. Stavo male dentro ma sentivo di non averne il diritto"

Irene Vella e l'obesità: "Mi lavavo e mi vestivo al buio"

Una storia di rinascita che fa da eco a quella di molte donne. Madri e non che in un momento della propria vita si sono trovate a un bivio e hanno dovuto scegliere di sacrificare se stesse e le proprie aspettative. La storia di Irene Vella, giornalista e autrice di Un chilo alla volta. Viaggio di andata e ritorno dalla prigione obesità, seppur all’esterno in forma diversa, ha un vissuto interiore comune a tante. Alla base c’è l’idea malsana di non avere diritto a stare male quando accanto c’è qualcun altro da assistere. “La nostra è ancora una società fortemente maschilista e grassofobica. Nel mio lavoro da inviata televisiva, non esistono giornaliste grasse. Io ho subito anche mobbing da un mio ex capo – rivela Irene – per fortuna solo uno”. Lo stigma sociale nei confronti dell’obesità e la logica tossica del 'se vuoi puoi' non perdonano neanche dopo l’intervento di chirurgia bariatrica. “Due haters mi dicevano che non ero dimagrita bene – racconta – perché non avevo sofferto abbastanza”. Invece Irene aveva sofferto eccome, perché i suoi 115 chili erano proprio il suo rifugio dalla sofferenza.

Da bambina eri felice?

“Ho trascorso un’infanzia immersa nei libri con dei genitori molto uniti. Sognavo di avere dei fratelli ma ero figlia unica. Da piccola ho sofferto di acetone in modo grave e mia madre mi ha dovuto togliere tutti i dolci. L’ho vissuta come una privazione enorme. Ancora oggi quando viaggio vado in cerca delle pasticcerie più buone”.

Quando il cibo ha iniziato ad assumere un significato diverso per te?

“Il momento esatto in cui ho deciso che il cibo mi avrebbe fatto ‘da spalla’, è stato quando mio marito si è ammalato di insufficienza renale cronica. Avevamo 29 anni e una bambina di due mesi. Mi è crollato il mondo addosso, poi ho capito che potevo donargli un rene ma non è bastato a guarirlo. A 15 anni dal trapianto la malattia, in quanto cronica, ha ribussato alla porta. Era il 2018, avevo 48 anni e facevo l’inviata a Mattino Cinque per Mediaset. Mi ero conquistata quel ruolo con sacrificio e una lunga gavetta, senza aiuti di nessun genere. I ricoveri continui e le infezioni legate alla malattia, mi hanno costretta a restare a casa. Anche se è stata la mia scelta, era l’unica possibile, l’amore per i miei figli prevaleva sull’Irene giornalista ed è stato come se mi avessero tolto la voce. Il mio telefono che prima squillava in continuazione, tra uffici stampa e vip, all’improvviso ha smesso di suonare. In pratica non esistevo più. In quel momento ho capito anche chi mi voleva veramente bene. La realtà quando te la sbattono in faccia in quel modo fa molto male.

È stato in quel momento che ho iniziato a mangiare. Non avevo un disordine alimentare conclamato ma mangiavo tanto ai pasti, significa anche tre etti di carbonara o tanti dolci. Stavo male dentro ma sentivo di non averne il diritto. Il mio malessere interiore, quella depressione latente, mi faceva sentire totalmente inutile, ma dentro di me pensavo di non avere il diritto di soffrire, perché era mio marito a stare male fisicamente. E invece non è una gara al dolore, questo l’ho ribadito anche nel mio libro. Ci sono situazioni in cui arrivi a toccare il fondo e da quel fondo non ti rialzi più. Quello è il momento di chiedere aiuto a uno specialista. Quando una situazione diventa patologica, allora l’amico non basta, bisogna andare da chi ha gli strumenti per aiutarti”.

Irene da quel momento chi è?

"Ero tornata ad essere la moglie del mister e la madre di Gabriele e Donatella. Non esistevo più professionalmente e a 49 anni è difficile rimettersi in pista. Quando ho provato a ricominciare dai giornali, mi sono confrontata con tanti squali che volevano farmi lavorare a poco. Alla mia età e con la mia gavetta era difficile da accettare. Così mi sono abbattuta e ho lasciato stare. Prima del lockdown ero già a casa e avevo raggiunto i 105 kg”.

Le persone anche in maniera inconsapevole possono ferire. Cosa faceva più male in quei momenti?

“Gli sguardi. Ci sono delle cicatrici che ti porti dentro che non sono facili da dimenticare. Non parlo dello sguardo che cura ma dello sguardo cattivo che giudica. A volte ce lo hai avuto anche tu ma non te ne sei accorta. Io sono stata una delle mie più grandi critiche e carnefici. Anche perché sono stata magra per trent’anni e grassa per venti. Ho vissuto nei panni della gnocca fino all’università. Finché sono stata solo rotonda mi piacevo, mi sono sempre vestita carina anche quando ero in sovrappeso, finché però non ho più trovato vestiti. Un giorno entri nei negozi, ti guardano e ti dicono che per te non hanno nulla. Allora ti senti giudicata e ti arrabbi. E quando stai male diventi più cattivo con gli altri e con te stessa.

Da sola non riuscivo più neanche a guardarmi allo specchio: mi lavavo al buio e mi vestivo al buio. Mi lavavo allo specchio con lo sguardo abbassato per paura di vedere il mio riflesso. Per tanto tempo non mi sono potuta guardare allo specchio. Avevo paura anche dopo l’operazione, perché temevo di ritrovarmi come ero prima. Rimangono dei bias cognitivi non indifferenti che piano piano superi con la terapia. La terapeuta dell’ospedale mi disse che il cambiamento sarebbe stato forte e nel tempo e che dovevo imparare a fissare il mio fisico. Difatti ho iniziato a farmi tantissime foto, poi è diventato anche un divertimento.

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Facciamo un passo indietro, come sei arrivata all’intervento?

Nel 2020 ho toccato il fondo. Sono andata da un dietologo del CNR di Pisa che mi aveva già preso in cura precedentemente. Pesavo già 107 kg, mi disse che ero vicinissima al baratro. Se non fossi riuscita con la sua dieta a perdere peso, allora ero al punto di non ritorno. Mi spiegò che probabilmente avrei preso 10 kg nel giro di un mese e dopo mi sarei dovuta per forza operare. Io pensavo di non averne diritto e di non essere così grave. Invece tutto ciò che lui aveva previsto è accaduto: nel giro di un mese e mezzo ho preso 15 kg, pesavo 117 kg. Respiravo male, non mi allacciavo più le scarpe da sola e avevo bisogno dell’appoggio dei miei figli. Un giorno sono rimasta incastrata nella vasca da bagno, ho scoperto che hanno una misura standard. E io non rientravo più in quella misura. Adesso ci rido, quando è successo è stata dura”.

C'è stato un momento in cui hai compreso la gravità della situazione?

“C’è stato un episodio in particolare. Ero con mio figlio in viaggio a Londra a dicembre 2019. Dormivamo in un hotel vicino Piccadilly al quinto piano. Una notte è scattato l’allarme antincendio e siamo corsi sulle scale. Dal quinto piano, io con quel peso rallentavo la discesa di tutti e mio figlio per aspettare me è rimasto indietro. Come madre non potevo accettare di averlo messo in pericolo. Dopo è arrivata la prima visita in cui mi hanno ritenuta idonea alla Sleeve. Ho anche scoperto di avere una serie di patologie legate all’obesità, come la sindrome grave dell’apnea notturna, con una media di 200 apnee per notte. Di notte rimanevo fino a due minuti senza respirare con tutti i rischi del caso, tra cui l’ictus. Infatti ho iniziato a dormire con la macchina per le apnee notturne finché non mi sono operata”.

Quindi fino a quel momento non pensavi che la tua obesità potesse rientrare nella chirurgia.

“Ho avuto la fortuna di trovare un medico preparato e non grassofobico che mi ha fatto capire prima di tutto che l’obesità è una malattia e come tale va trattata. Mi ha preso per mano e mi ha spiegato che l’operazione che non era la bacchetta magica ma un assist. Poi ero io a dover fare gol. Infatti la chirurgia bariatrica non è una scorciatoia come tanti possono pensare. È un’operazione impegnativa, soprattutto per il post operatorio. Se sei abituata a utilizzare il cibo come stampella, ti ritrovi da sola con i tuoi demoni e non puoi mangiare. Dopo sei giorni, di fronte a un piatto di carbonara preparato per i miei figli, sono scoppiata a piangere singhiozzando. Il primo mese puoi ingerire solo liquidi. Avere il supporto della mia famiglia è stato fondamentale”.

Pesano sul vissuto anche lo stigma e l’idea tossica del “se vuoi puoi”. Quali sono le cose da non dire a una persona con obesità?

“Sicuramente la cosa da non fare mai in famiglia sono le allusioni al peso. La frase peggiore è: che ci vuole? Basta chiudere la bocca e muoversi. Ancora c’è chi pensa che sia una questione di pigrizia. Dei miei circa 34mila follower ho avuto due haters. Dopo l’intervento mi scrivevano che non ero dimagrita bene, perché non lo avevo fatto con sudore e chiudendo la bocca. Questo dà l’idea di quanta mentalità grassofobica ci sia. Allora lì capisci che la gente potrà sempre avere qualcosa da giudicare. Ho imparato ancora di più a fregarmene. C’è uno stigma non indifferente nei confronti della chirurgia bariatrica, tantissime celebrities l’hanno fatta senza dirlo. È come se culturalmente fosse un problema, eppure non si tratta di 10 - 15 kg in più che puoi perdere da solo o scegliere di tenerti e io, ad esempio, me li sarei tenuti. Quando sono diventati 42 ho capito che per vivere dovevo curarmi. Nel lungo periodo la chirurgia è quella che ha maggiore successo perché non ti fa riprendere i chili. Prima dell’operazione devono escludere la presenza di un disturbo alimentare conclamato, perché dopo esserti operata non puoi mangiare e se provi a forzarti puoi morire. A due anni e due mesi dall’intervento ho mantenuto lo stesso peso. Non ho mai più usato la macchina delle apnee. Dormivo regolarmente già dal primo mese”.

Dopo l’operazione cosa è cambiato dentro di te e fuori?

“Nel 2020 avevo già ripreso a lavorare, ho scritto la poesia che è diventata virale in tutto il mondo: “La primavera non lo sapeva” che è stata tradotta in 22 lingue e ripresa da The Oprah Magazine. Avevo ricominciato a fare il mio lavoro da casa, ma poi mio marito ha avuto un’emorragia interna. Per fortuna mi ero operata e ho avuto la forza di prendere in mano la situazione. Ancora una volta quando sembrava che tutto andasse bene, siamo scivolati nell’incubo. Il 2022 è stato l’anno peggiore di tutti, finché non è arrivato un rene per lui a dicembre. Non abbiamo mai smesso di lottare e poi la felicità è arrivata. Adesso mangio tutto, vado per pasticcerie e ho un rapporto con il cibo bellissimo. Mangio insieme alle altre persone. Per molto tempo mi sono privata del piacere di mangiare in compagnia per paura del giudizio. Oggi sono molto più buona con me stessa. Finalmente vedo tutto il male che mi sono fatta e che mi sono anche lasciata fare. Ho imparato a dire tanti no”.

Cosa si può aiutare una persona affetta da obesità?

“Far sentire l’altro accettato ma senza giudizio o commento. Bisogna aspettare che la persona sia pronta per essere aiutata. Il mio libro cerca di prenderti per mano e tirarti su, perché tutte noi donne in particolar modo abbiamo avuto un momento in cui ci siamo sentite perse, ci siamo sentite messe da parte dalla società, che in qualche modo ci ha portato spesso a sentirci obbligate a determinate scelte. Come quando sei costretta a scegliere di fare la mamma perché non hai alternative per riuscire a conciliare il resto. Non c’è nulla di sbagliato nella scelta di stare a casa, il problema è quando la subisci”.

In certi contesti più di altri le donne subiscono ancora l’enorme peso delle aspettative sociali.

“Le madri sono quelle penalizzate sul lavoro, quelle che spesso devono rinunciare alla propria carriera se non hanno aiuti. La nostra è ancora una società fortemente maschilista e grassofobica. Nel mio lavoro da inviata televisiva non esistono giornaliste grasse. Io ho subito anche mobbing da un mio ex capo, per fortuna solo uno. Diceva che il mio faccione impallava lo schermo. Mi ha massacrato per un anno, poi sono andata via. Il libro è un modo per far sapere a chi è toccato da una situazione del genere che c’è sempre una via di uscita. Vorrei che le mie parole possano in qualche modo smuovere quella scintilla”.

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