Benigni, Dante può attendere Satira prima della Commedia

Davanti a cinquemila persone lo showman ironizza su Prodi e Bersani. Solo dopo declama l’intero primo canto dell’Inferno

Domenico del Nero

da Firenze

Dante e Benigni, il poeta e il suo giullare. Martedì sera, al primo dei 13 appuntamenti (si continuerà sino al 19 agosto) del comico toscano con quello che lui stesso ha definito il capolavoro più straordinario di tutti i tempi, la Divina Commedia, piazza S. Croce, trasformata in teatro popolare, è stracolma di gente di ogni età: i cinquemila posti sono più o meno aggiudicati. E la bolgia inizia con il traffico e con le difficoltà di raggiungere i propri posti: sembra sia giunto un capo di Stato o un allarme terrorismo, accessi bloccati, controlli; per fortuna si tratta di una festa. E Roberto inizia il suo monologo, anzi un dialogo, rivolgendosi alla arcigna statua del poeta alle sue spalle, che sembra tenere tutti «in gran dispetto». Al principio, la commedia più che divina è politica: ce n'è un po' per tutti, almeno all'inferno o dintorni la par condicio è assicurata. E così, bordate alla mole di Giuliano Ferrara, che impedisce al pur altissimo poeta di vedere i cinquanta milioni di italiani che Benigni vuol mostrargli. «Lo vedi quello in bicicletta? È Prodi, il facilitatore, il presidente del Consiglio. Non ti garba? Non ci credi che il presidente è così? Tu dovevi vedere quello che c'era prima» e così tocca a Berlusconi che Dante, parola di Roberto, avrebbe collocato nel girone dei magistrati, dove non c'è l'indulto. Ma a proposito di giustizia, «In questa piazza - continua Roberto - s'è cominciato a leggere la Commedia con Boccaccio e si finisce con Benigni: che tempi! Ma per l'appunto, se pensiamo che il ministro della giustizia ora è Mastella». Non la scampa neppure Bersani, inseguito da plotoni di tassisti armati e braccato da avvocati e farmacisti, poi le intercettazioni telefoniche, la Fiorentina e pure l'omosessualità; il pubblico gode e ride a crepapelle. Ma, forse perché il naso marmoreo del divino poeta sembra iniziare a storcersi, Roberto vira di bordo e viene al dunque. E sembra davvero, allora, di assistere a una metamorfosi. Pur restando fedele a se stesso e continuando a concedersi qualche battuta fulminante, il comico si fa poeta, prende per mano gli spettatori e li conduce nel gran viaggio attraverso l'aldilà. Con qualche osservazione forse discutibile, soprattutto in materia teologica («La Divina Commedia è stata scritta non perché esiste Dio, ma perché Dio esista»); ma nel complesso, oltre a rivelare un amore davvero antico, iniziato sin da bambino con le declamazioni tra contadini e gente comune, l'attore si trasforma davvero in maestro. Roberto si sofferma su tutto, sui personaggi, sulla poesia, su simboli e allegorie, persino sulle figure retoriche, e naturalmente sull'amore: «Nessuna opera è immortale se non ci sono dietro gli occhi di una donna» dichiara parlando dello sguardo di Beatrice. E così il primo canto dell'Inferno prende vita proprio nei luoghi in cui il suo autore studiò ed ebbe la sua formazione. Non solo parafrasi: i protagonisti, Dante e Virgilio, vengono interpretati e fatti vivere davanti a tutti. Ora c'è più silenzio, si ride meno ma ci si concentra di più. Poi il gran finale, con l'intero canto declamato a memoria.

Recitazione sentita ma un po' monotona, siamo lontani dalla magia delle inflessioni, delle pause e del ritmo di Sermonti. Ma tutto sommato, il padre Dante può esser contento, e i fiorentini, a giudicare dalla marea di applausi, pure.

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