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Benvenuti nel paradiso degli 007, siamo il Paese più spiato al mondo

MilanoDo you remember Italy, Bob? Certo che se la ricorda bene, l’Italia, Bob Lady. Capo del centro Cia di Milano, ha dovuto dire addio alla Penisola per un mandato di cattura e poi per la condanna a otto anni di carcere per il rapimento dell’imam Abu Omar. Ma del Belpaese conserva un ricordo imperituro per due motivi: il vino buono e le intercettazioni facili. Quelle che in America se le sognano, e che qui rendono dannatamente più agevole il mestiere dello sbirro. «La polizia italiana è molto brava - racconta lo 007 al Giornale - ma ha dalla sua anche molte possibilità. Qui intercettare una telefonata è facile, da noi è molto difficile. Qui è facile piazzare una microspia e un gps in auto. Da noi per niente. La conseguenza è che in Italia si intercettano cinquemila telefoni al giorno, negli Stati Uniti non si arriva a cinquemila tutto l’anno». E se lo dice Bob...
La testimonianza dell’uomo della Cia è importante, perché sembra fare piazza pulita di una questione che si trascina da tempo. È vero o non è vero che l’Italia è il Paese più «ascoltato», se non del mondo, almeno tra i Paesi democraticamente avanzati? Le statistiche governative - da ultime quelle diffuse dal ministro Alfano nel giugno 2008 - dicono di sì: «In Italia vengono intercettate oltre 100mila persone l’anno, in America 1.700, in Svizzera 1.300, in Gran Bretagna 5.500», aveva detto il Guardasigilli. Dal fronte opposto, il giornalista Marco Travaglio aveva accusato i dati ministeriali di essere privi di significato, perché «il totale non indica il numero dei soggetti intercettati.. quando si intercetta un indagato si controllano i suoi cellulari, numeri di abitazione, mare, montagna, ufficio, auto». E, insomma, quali fossero le dimensioni reali del Grande Orecchio era difficile stabilirlo una volta per tutte. Quello che è da sempre facile stabilire - perché affidato alle contabilità del «sistema giustizia» - è la dimensione colossale del business che ruota intorno alle intercettazioni, e che collocano indubitabilmente l’Italia al primo posto assoluto nella spesa pro-capite: 224 milioni di euro l’anno, pari a 37,3 euro per abitante. Un importo che nel corso degli ultimi anni tende a decrescere: non perché siano in calo i telefoni sotto controllo, ma perché le Procure di tutta Italia stanno finalmente rivedendo al ribasso i prezzi corrisposti per ogni intercettazione, facendo un po’ di chiarezza in un tariffario che vedeva la stessa prestazione fatturata per il doppio, il triplo, il quintuplo passando da una città all’altra.
Secondo una tabella pubblicata da Panorama nel dicembre 2008, il costo giornaliero per il controllo di una utenza telefonica variava da un minimo di 4,80 euro pagati dalla Procura di Terni ai 27 euro pagati dalla Procura di Lodi. A spartirsi la torta, non ci sono solo le compagnie di telefonia fissa e mobile, ma anche la miriade di aziende specializzate in attrezzature per intercettazioni che ruotano intorno alle Procure e alle forze di polizia. Sugli intrecci di interessi all’interno di questi universi esiste da tempo un vasto gossip, sfociato raramente in articoli di giornale: anche se nel dicembre scorso, una inchiesta di Repubblica ha segnalato che una delle società più in vista nel business delle intercettazioni per conto della Procura di Milano è controllata dal nipote del procuratore capo, Manlio Minale.
Intrecciando costi unitari e bilanci delle società, alcuni anni fa un’altra inchiesta giornalistica era arrivata a queste conclusioni: la sola Tim (che controlla circa il 36 per cento della telefonia mobile) intercetta ogni anno almeno 140mila linee, fornisce alla magistratura almeno 120mila tabulati (cioè l’elenco completo delle chiamate fatte o ricevute da un telefonino) e addirittura due milioni di «anagrafici», cioè di certificati che rivelano a chi è intestata una data utenza. Tenendo conto del peso degli altri operatori telefonici, l’inchiesta - mai smentita - concludeva che «una stima intorno alle 400mila utenze tenute sotto controllo ogni anno è dunque realistica».
La situazione, dunque, è ancora più impressionante di quanto descrive Bob Lady, l’ex capo della Cia milanese. E pone di fronte a quella che è la vera domanda: chi sono, e come vengono scelti, questi quattrocentomila fortunati? Nei giorni scorsi un articolo di Italia Oggi e poi una dichiarazione di Silvio Berlusconi avevano accusato la Procura milanese di intercettare 1.600 utenze di Regione, Provincia e Comune, cioè quasi tutti i telefoni mobili e una parte di quelli fissi. La notizia era stata informalmente definita «fantasiosa» dai vertici della Procura, secondo cui la stragrande maggioranza delle intercettazioni viene compiuta nelle inchieste su mafia e droga. «Oltretutto - avevano spiegato fonti della Procura - ogni intercettazione viene autorizzata da un giudice preliminare, che è impensabile che dia il via libera a intercettazioni a tappeto». Ma è ormai evidente che è prassi di alcuni giudici preliminari dare il via libera a un altro tipo di intercettazioni: le intercettazioni a catena, quelle per cui - come nelle catene di Sant’Antonio o nel marketing multilivello - ogni telefono sotto controllo ne produce altri, e ognuno di questi si moltiplica a sua volta. È il meccanismo che spinto all’estremo ha prodotto, per esempio, il «sistema Genchi», un incrocio di milioni di tabulati. I tabulati, oltretutto, vengono acquisiti dai pubblici ministeri, risalendo fino a due anni addietro, senza autorizzazioni né controllo, il che permette di schedare numeri imponenti di cittadini senza necessità che siano sottoposti a indagine.

Ma quest’ultimo dettaglio, anche se non tutti lo sanno, vale anche per le intercettazioni vere e proprie: nell’attuale testo del codice di procedura penale, nessuna norma prevede che a venire ascoltate possano essere solo le conversazioni delle persone sotto inchiesta.

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