Benvenuti in Sovietistan le tessere asiatiche del domino comunista

Raccontano i manuali di storia che l'Unione Sovietica è crollata nel 1991. Loro malgrado gli abitanti dell'Asia Centrale non sembrano essersene accorti. L'eredità dell'ex Urss persiste imperterrita nelle cinque giovani repubbliche nate dallo sfarinamento del grande impero sovietico. A un quarto di secolo dal crollo del potere comunista poco sembra essere cambiato nel Sovietistan, come la giovane antropologa norvegese Erika Fatland ha ribattezzato quell'immenso territorio in parte desertico, in parte aspramente montagnoso compreso tra il mar Caspio e l'altipiano del Pamir. Quattro milioni di chilometri quadrati divisi in parti disuguali tra Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan. Stati senza alcun fondamento storico, nati intorno agli anni Venti dalle bizze di Stalin e dei geografi di Mosca al suo servizio, tutti vogliosi di applicare alla lettera la sempre valida regola geopolitica del divide et impera. Luoghi poco raccontati e ancor meno visitati (tranne forse la mitica Samarcanda e l'Uzbekistan), che l'intraprendente giornalista norvegese ha attraversato in solitaria in occasione dei 25 anni di indipendenza, caduti lo scorso anno, per trarne un corposo (534 pagine nella traduzione italiana di Eva Kampmann pubblicata da Marsilio, euro 19,50) e ben documentato libro di viaggio.

Leggendolo si imparano molte cose interessanti sul destino, non fortunato, delle cinque repubbliche centroasiatiche e dei 65 milioni di persone che le abitano. Repubbliche islamiche più di nome che di fatto, accomunate non solo dal suffisso «-stan» - che in persiano vuol dire stato/nazione - ma dal triste passato sovietico e da un altrettanto triste presente dittatoriale. Si capisce soprattutto che è il caso di diffidare dagli ingegneri, specie se hanno studiato a Mosca e si sono messi in testa di darsi alla politica. Non ne esce nulla di buono, men che meno per le popolazioni. Lo spiega Erika Fatland nel tratteggiare sul campo le parabole di Saparmurat Nyyazov, meglio conosciuto come Turkmenbashi, il padre di tutti i turkmeni e, fino alla morte nel 2006, uno dei più bizzarri dittatori del globo. Laureato al Politecnico di Leningrado, segretario del partito comunista turkmeno dal 1985 ed eletto presidente alla caduta dell'Urss con il 98,3 per cento dei voti che gli hanno garantito il potere perpetuo. Uno che in vita cambiò il nome dei giorni e dei mesi rinominandoli in onore di se stesso e di sua madre. O quella di Emomali Rahmon, presidente del Tagikistan dal 1992 e signore incontrastato del più povero tra i 5 «stan». O ancora di Nursultan Nazarbaev, scelto da Gorbacëv come segretario di partito del Kazakistan e divenuto sempre più autoritario, pur avendo elevato il tenore di vita dei suoi concittadini ridistribuendo una parte delle immense ricchezze derivate dal gas di cui è ricco il Paese.

L'ultimo della serie è Shavkat Mirziyoyev, ingegnere specializzato in impianti di irrigazione che con un'abile mossa e non senza aver fatto incarcerare qualche rivale, è diventato il nuovo presidente dell'Uzbekistan dopo la morte, nel settembre 2016, di Islom

Karimov, ex segretario comunista divenuto capo di stato con l'indipendenza del Paese. Un altro che doveva aver letto la traduzione russa del Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

OSpa

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