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Bersani fa il tifo per le urne ma non vuole ammetterlo

Il segretario Pd preferisce le elezioni però finge di sostenere le larghe intese. E sul ddl di stabilità frena: "Non ci sono ancora le condizioni per votarlo"

Bersani fa il tifo per le urne  ma non vuole ammetterlo

A sera, dopo il colloquio con il presidente Giorgio Napoli­tano, arriva l’ennesimo colpo di scena e l’annuncio che il pre­mier si dimetterà dopo il voto sulla legge di stabilità. «Tocca ri­c­onoscere che è un grande com­battente, capace di inventarsi qualcosa dopo ogni batosta», os­serva il Pd Francesco Boccia, «è chiaro che lui spera di prendere tempo, col voto sulla legge di sta­bilità, e tirarla in lungo per un al­tro mese per poi andare al voto. Ma i tempi devono essere molto più rapidi: entro il mese sono previste aste di titoli del debito pubblico italiano per oltre 15 mi­liardi.
Non è pensabile che si affronti­no senza le dimissioni formali di Berlusconi». Dopo le quali, è l’auspicio di gran parte del Pd, si apriranno le consultazioni e la partita del «governo Monti». Pur di far presto, assicura la presi­dente dei senatori, Anna Finoc­chiaro, il Pd «è pronto a far passa­re la legge di stabilità nel giro di pochi giorni». Più cauto il segre­tario, Pier Luigi Bersani: «Al mo­mento non ci sono le condizioni per votare il Ddl stabilità, ma spero sempre in un miracolo».

Il voto sul rendiconto, ieri, ha avuto un esito superiore alle aspettative per l’opposizione: ne avevano contati 311 ancora con la maggioranza, invece ce ne sono stati tre in meno.
Si alza in aula, Bersani, e inti­ma la resa: «Le chiedo - dice ri­volto a Berlusconi - con ogni for­za: prenda atto finalmente della situazione, rassegni le dimissio­ni e affidi a Napolitano la ricerca di una soluzione che metta in grado il nostro grande paese di
affrontare questa emergenza». Poi però arriva la reazione uffi­ciosa del Cavaliere: «Non mi di­metto ». Mentre il premier sale al Colle, dove Napolitano fa sape­re di attenderlo, nel Palazzo re­gna l’incertezza. «A questo pun­to non ci resta che presentare noi una mozione di sfiducia, per costringerlo a lasciare», ragiona il veltroniano Andrea Martella. Se Berlusconi non annuncia le dimissioni, spiega Sergio D’An­toni, la mozione è una strada ob­­bligata, anche se dall’esito incer­to: «Se no il rischio è che ad im­porre l’agenda, scegliendo il per­corso che va dritto alle urne, re­sti Berlusconi » .

Il testo della sfiducia è già pra­ticamente scritto, assicura il diri­gente del Pd, ed è «diverso dalle solite mozioni, perché stavolta per stanare i dissidenti della maggioranza dobbiamo co­struirla in modo da renderla una “sfiducia costruttiva”, che men­tre mette la parola fine al gover­no-Berlusconi apra una prospet­tiva alternativa. Altrimenti gli in­certi, col terrore di andare al vo­to, si aggrappano al premier».

Resta il dubbio su quando e se presentarla: i numeri sono trop­po incerti. E un conto è non veni­re a votare, magari annuncian­do un malore improvviso, un al­tro è presentarsi a votare a viso aperto la sfiducia: quanti tra i «malpancisti» avrebbero il co­raggio di farlo? I deputati del Pd e degli altri gruppi di opposizione, però, so­no stati precettati: sui telefonini di tutti è arrivato un sms che ordi­na di non allontanarsi da Roma fino a domenica, in caso estre­mo il voto potrebbe essere fissa­to anche per sabato. In ogni caso l’euforia, per le opposizioni, non dura a lungo dopo il risulta­to della votazione, e una volta ve­rificata l’intenzione di resistere del premier.

«Abbiamo vinto ma abbiamo perso, ci siamo abituati», ironiz­za l’ex Ppi Antonello Giacomel­li. Finché Berlusconi resta a Pa­lazzo Chigi, «il pallino in mano lo ha ancora lui», come constata con alcuni compagni di partito Massimo D’Alema. Proprio l’ex premier, uno dei più convinti so­­stenitori del possibile governo «di larghe intese», per il quale ha fatto esplicitamente il nome di Mario Monti, ieri - nonostante la sconfitta del governo - si mo­strava pessimista: «Lo scenario più probabile, allo stato, è quel­lo delle elezioni antici­pate. Dipende tutto da Berlusconi e da quelli che ha intorno».

Una diagnosi condi­visa, ad esempio, dal­l’Udc Angelino Sanza, che la espone ad alcuni parlamentari. Uno di lo­ro, il povero Luciano Sardelli, ex capogrup­po dei Responsabili re­cen­temente trasmigra­to nuovamente nell’op­posizione, ascolta e sbianca in volto al­l’idea che tutto sia inuti­le.

In Transatlantico so­no piombati anche i principali esponenti di Sel (senza Vendola, che è in Cina come go­vernatore della Puglia), tutti a ti­fare per le elezioni subito e ad in­formarsi sulle prospettive di un governo di «larghe intese» che vedono come il fumo negli oc­chi. Una prospettiva che non ap­passiona neppure Bersani, an­che se non può dirlo.

Il segretario del Pd non si sbi­lancia nei pronostici e dà fifty­fif­ty l’ipotesi di elezioni e quella di un nuovo governo. Che però, ra­giona, per nascere dovrà avere «una maggioranza molto larga, di 500 voti». Il che implica che ci sia l’intero Pdl a sostenerlo, ipo­tesi assai incerta.

«Ma alla fine ­assicura un dirigente Pd- se il Ca­valiere spinge verso il voto il suo migliore alleato sarà Pier Luigi».

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