Vecchio io? No vecchio tu. L’unica cosa che si è capita del duello in stile Rocky Balboa tra Renzi e Bersani è questa: nel Pd non c’è nulla di nuovo.
Il rottamatore fiorentino guarda nello specchietto retrovisore la corsa feroce dei Tirannosaurus Rex e scalcia contro l’orizzonte da Jurassic Park che lo circonda. Bersani gli rinfaccia un ritorno al futuro: «Attenzione a non scambiare per nuove delle idee che sono un usato degli anni ’80, perché con certe idee siamo finiti nei guai. Tutto qua».
Tutti quelli che hanno sbirciato il ventenne Renzi con il faccione telegenico sfidare la sorte alla Ruota della Fortuna, il video reperto fa collezione di click su You Tube, si sono chiesti dove avevano già visto quel tipo, quel suo modo di fare, quell’aria da agente di commercio con l’avvenire in una mano e Il Sole 24 Ore in tasca. La risposta è in una sit-com degli anni ’80. Renzi ricorda il Michael J. Fox di Casa Keaton. È la storia di una famiglia di Columbus, Ohio. I genitori hanno attraversato il ’68 e si ritrovano negli «Ottanta» con nostalgie da hippy e un appartamento da upper class. La madre è architetto, il padre lavora per il network televisivo Wks. Non hanno rinnegato nulla del loro passato, ma si godono il meglio della reaganomics. I sogni per continuare a sognare, i soldi per non farsi mancare nulla. Il problema dei Keaton è un figlio che si diverte a smantellare le loro ipocrisie. Michael J. Fox è un perfetto repubblicano, che odia la retorica dei buoni sentimenti, sputa sui fiori e salva i figli, passa le giornate a consultare gli indici di borsa, stravede per Nixon e dice che in effetti i soldi non sono tutto: «ci sono anche gli assegni». È l’ultima stagione della Guerra Fredda. È la paura per la bomba atomica. Ma è anche speranza, rivoluzione, con quel «riflusso» carico di futuro. È l’Occidente che si ribella all’apocalisse con Reagan e la Thatcher e l’Oriente in fuga carambolesca dalla cortina di ferro, con l’Urss che beve Pepsi e scarabocchia «glasnost’» e «perestrojka» sui muri del Cremlino.
Casa Keaton andava in onda su Canale 5, sette stagioni, dal 1982 al 1989, poi è caduto il Muro, sono finiti gli anni ’80, Wall Street ha frantumato l’ottimismo degli yuppies, Jay McInerney e Bret Easton Ellis si sono sentiti improvvisamente vecchi, le sale giochi hanno lasciato il posto alle playstation e il grunge, non solo a Seattle, ci ha fatto sentire tutti improvvisamente straccioni. Qualcuno si era già mangiato il futuro, le promesse di felicità e in Italia Giuliano Amato, con quella faccia da Mickey Mouse, aveva sotterrato le speranze sotto una finanziaria di lacrime e sangue. Era solo l’inizio.
La nostalgia, tarlo di chi invecchia male, ogni tanto appare come un’epifania, una illuminazione improvvisa. E così in questi giorni ci siamo ritrovati a ridacchiare davanti all’ultima puntata inedita di Casa Keaton. I protagonisti: Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani. Il figlio e il padre. Le battute più o meno sono rimaste le stesse. Il figlio ghigna sugli ideali burocratizzati del padre e il padre sbrocca per il cinismo del figlio. Cosa c’è di nuovo? Il Pd in fondo è vittima di un sortilegio e per qualche strano maleficio fatica a risvegliarsi e galleggia in un altro tempo dove gli anni ’80 non sono mai passati. Qualcuno dice che la colpa è di Berlusconi. Sono ancora così sconvolti dalla sua apparizione nel ’94 che la via di fuga che riescono a vedere è rincorrere il passato. L’unica differenza tra padre e figlio è la consapevolezza. Renzi sa dove si trova e scalcia per uscirne fuori. Bersani pensa che il passato in cui vive sia reale, presente. Ma forse in questa prigione ci siamo cascati un po’ tutti.
Quando il segretario del Pd accusa il suo avversario familiare di essere vecchio, di riciclare idee degli anni ’80, magari ha pure ragione, qualcosa di quello spirito è rimasto sui maglioni di Matteo. Quello che Bersani non vede è il tradimento di quegli anni, decennio incompiuto. Marco Gervasoni in Storia d’Italia degli anni ’80 parla di ultimo tentativo dell’Italia di completare il Novecento, di fare le riforme. Il sotto titolo del saggio è: «Quando eravamo moderni». Gli anni ’80 come occasione mancata. È la politica nefasta del debito pubblico, ma è anche l’intuizione che per andare avanti bisognava ridisegnare il welfare, la previdenza, il mercato del lavoro, il rapporto tra partiti e affari. Nulla di questo è stato fatto. Le conseguenze sono quelle che stiamo pagando. La colpa è di chi ha visto e non ha fatto, ma anche di chi proprio non voleva vedere. Cieco era e cieco è rimasto. Bersani rimpiange il piombo dei Settanta e le suggestioni heavy metal o quel lungo viaggio nel deserto che sono stati i Novanta. Ma quelli sono decenni finiti. Senza futuro. Non si può ripartire da lì.
Gli «Ottanta» sono, invece, la porta scorrevole del nostro destino.
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