RomaMa chi lavrebbe mai detto. Il Pigi Bersani da Bettola, alla vigilia dei suoi sessanta, lì a giocarsi il tutto per tutto per camuffarsi da leader maximo (rectius: in vece di Max). Daccordo, non sarà più il Pci della Bassa Piacentina, ma pur sempre una gran soddisfassiùn per papà Beppino, meccanico e benzinaio, e tutti quelli del paese che ne ascoltarono il vagito numero uno quel 29 settembre, del 51. Qualcuno avendo altresì notato, in questi mesi di ferocia elettorale interna, quanto labito da monaco del Pd gli cada addosso stretto, assai sbilenco, fastidioso come un collo di camicia puntuto.
Pierluigi, da autoironico gaudente e modesto qual è, non ci avrebbe scommesso un soldo. Se non fosse che il partito è talmente malmesso da richiedere lingresso in campo persino dellultimo dei riservisti: funzionario modello, stimato ministro abituato alla faticosa vita del mediano. Del portatore dacqua al mulino: come fu durante lo «storico» governo del «capo», Max DAlema, quando Palazzo Chigi fu definita merchant bank e lui, che gestiva lIndustria in virtù dei gran traffici e ottimi rapporti stabiliti tra Coop rosse e Compagnia delle Opere, propiziò loperazione Telecom accompagnando per mano Colaninno dal premier Max. Volevano lanciare i «capitani coraggiosi», la «razza padana» che avrebbe rifondato il mondo economico-finanziario. Finì con DAlema cacciato dalla stanza dei bottoni e, passando di vicenda in vicenda, con linutile tentativo di scalata dellUnipol alla Bnl. Dove il simbolico filo conduttore tra i tanti affari intrecciati (e sempre da Bersani coraggiosamente difesi) furono quei 50 milioni di euro di singolare «buonuscita» sganciati da Gnutti a Giovanni Consorte, patròn di Unipol («facci sognare», aveva incoraggiato Max).
Più che un sogno, un incubo che finisce abbastanza male per tutti, come per i Bastardi senza gloria, il film di Quentin Tarantino che Bersani ha visto «unora dopo luscita» e vorrebbe far diventare cult nel nuovo partito. Perché allora evocare quelle storie di malafinanza? Perché il povero Bersani, ormai stressato dalle calze turchesi di Franceschini più che dal modello sala operatoria di Marino, non sa più bene che cosa inventarsi. Essendosi sempre considerato il trait-dunion tra chi al partito porta voti (i lavoratori dipendenti) e chi può portare sghei (finanza e grandi affari), ieri ha tirato in ballo papà Giuseppe. «Sono figlio di meccanico, pane e piccole imprese è stata la mia vicenda quotidiana, ho fatto il ministro delle imprese...». Dimenticando dunque quanto il tema delle piccole imprese sia stato assente dalla sua politica come dalla sua campagna elettorale (persino nel discorso al recente congresso). E quanto la retorica del «pane e...» ormai labbia usata fino alla nausea (in tv è arrivato a dire: «Mangiamo pane e Berlusconi...»). Dalla storia degli «affari del secolo», Telecom e Unipol-Bnl, dalle frequentazioni mai rinnegate persino con i «furbetti del quartierino» (leggi: Ricucci), si può insomma utilmente dedurre quanto Pierluigi, figlio del meccanico, sia vicino al piccolo imprenditore, meccanico e non.
Luomo, però, è schietto: tanto da aggiungere, in quel suo lessico che conia espressioni un po buffe e un po sbilenche, almeno come la sua leadership, che «non le abbiamo azzeccate tutte, ma non le abbiamo sbagliate mica tutte». Si respira aria modesta e casalinga, limbarazzo di uno che si trova dove non vorrebbe essere, «uno concreto, che ha finalmente le idee chiare», anzi «ha idee piuttosto chiare», come recita lo spot congressuale. Brandelli di frasi tra luogo comune e politichese del funzionario, che mirano alla seduzione della casalinga di Voghera come del meccanico di Bettola. «Dobbiamo uscire da questa paranoia del dialogo»; «vogliamo mettere un argine a questandasso qua?»; «ma cosa cha messo in tasca, sta roba qua?»; «Scajola non ha fatto politiche di stimolo».
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