Bertolaso contrattacca: «Giustizia sommaria, mi sento un alluvionato»

RomaGli altri parlano, lui ascolta. Gli altri vanno alla buvette a bere il caffè, lui si alza, si congeda, va a infilarsi la tuta. Gli altri presentano 300 emendamenti, lui parte per la Calabria, Maierato, per controllare la frana che ha travolto il paese. Citare John Belushi non è sufficiente. Il gioco si è fatto durissimo, ma Guido Bertolaso la sua frase preferita l’aveva già svelata in chiusura di trasmissione, a Ballarò. È una cosa che gli ha detto Riccardo Muti: «Chi suona stona, chi non suona critica». Lui ha scelto di suonare: alle 10 di ieri mattina sedeva tra i banchi del governo nell’aula della Camera per la discussione sul decreto emergenze. Rispondeva agli interventi. Alle 14 partiva per la Calabria. Vertice operativo all’aeroporto di Lamezia Terme. Sorvolo in elicottero della frana. Annuncio che lo stato di emergenza verrà portato al consiglio dei ministri di venerdì. È questa la sinfonia di Guido Bertolaso: non fermarsi mai.
Ma ci sono anche le parole. Diverse da quelle rifinite delle interviste. Più intime, più ruvide, inusuali. Le parole «alle donne e agli uomini della Protezione Civile». Il racconto della vita che da un giorno all’altro cambia, il «ludibrio» sui giornali, il «fango gettato nelle pale del ventilatore». Non si sa da quale scintilla sia nata questa reazione: partire e scrivere. Forse dalla fiducia confermata da chi è vicino: i collaboratori, la famiglia. Forse perché il castello delle accuse, in particolare quelle a sfondo sessuale, si è sbriciolato. La forza parte da quelle briciole. «Da oltre una settimana - inizia la lettera aperta pubblicata sul sito della Protezione civile - sono oggetto di due diverse iniziative giudiziarie». Una, quella dei giudici, su cui non ha «nulla da eccepire». L’altra, la «giustizia sommaria» del fango. Il «processo mediatico». E allora inizia una strana confessione, strana perché la sequenza delle frasi non ha niente del comunicato stampa, non ha niente delle parole della politica: «Ho provato, in questi giorni, l’angoscia, il senso di ingiustizia, di devastazione, di perdita totale e senza eccezione delle tante persone che abbiamo soccorso dopo che le loro case erano state invase da fiumi di fango. Ti guardi intorno e vedi che ogni cosa della tua vita è sommersa, ricoperta da una patina untuosa e maleodorante». Il fango ricopre anche «la moglie, i figli, i parenti, gli amici. Nel mio caso, anche le migliaia di persone che lavorano nella Protezione Civile italiana, specie coloro che vi si impegnano da volontari».
Le parole non sono belle, stridono come se fossero fatte di ferro: «Qualche schizzo di questa tempesta puzzolente arriva anche sulle loro uniformi. Questo è il senso dell’operazione contro di me, questa la causa della pena e del malessere che anche voi vivete: “Bertolaso, il nostro capo, un pezzo di merda così?”». Sono pensieri «che considero possibili e anche legittimi». «Come un alluvionato - scrive Bertolaso - mi trovo a patire sofferenza, rimpianti, strazianti ricordi».
C’è chi critica anche questa lettera, come Luigi de Magistris dell’Italia dei Valori: «È vergognoso paragonare la propria condizione agli alluvionati». Gianclaudio Bressa del Pd ne chiede la rimozione dal sito. Ma è difficile che De Magistris e Bressa si siano letti dall’inizio alla fine le pagine di «rabbia, dolore, sofferenza». Responsabilità «di avervi trascinato in una vicenda di incredibile squallore e tristezza», anche se da «parte lesa e non da coimputato o colpevole». Consapevolezza lancinante che ci possono essere stati «errori», fatti però «da uno che non ha mai voluto essere Superman». Uno che ora vuole «battersi per la verità, anche se non interessa a nessuno, tranne che a me, alla mia famiglia e a molti di voi». «Non sono amichetto di nessuno, questa forse è la mia colpa principale». Bisogna essere «come il mare», sconvolto «dalla tempesta e ancora calmo, qualche metro più sotto».

«Faccio mia la sofferenza di tutti coloro che si sentono colpiti ingiustamente per questo patibolo che non ho scelto né meritato». «Vi saluto con tutto il mio affetto e la mia fedeltà». La conclusione vera è anzi: «Buon lavoro a tutti».

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