«Il best-seller medico si rinnova: basta Dr. House»

«Professioni disabilitanti» le chiamava Ivan Illich discutendo di medici, psicoterapeuti e affini. «Disabilitanti» non certo per chi le intraprende, bensì per i pazienti. Intendeva, Illich, che superata una certa soglia la medicina diventa «iatrogena», genera cioè essa stessa sempre nuove malattie. Figuriamoci se poi un medico si mette a scrivere fiction: passata l’epoca dei Cechov, dei Céline, degli Schnitzler e dei Gottfried Benn, la miglior cosa che possa uscirne è un incrocio tra il Dr. House e Michael Crichton, con una spruzzatina di Robin Cook.
Be’, non è andata del tutto così con Abraham Verghese - medico per decenni in India, Tennessee e Texas nonché professore alla Stanford University - sbarcato ieri in Italia per presentare il suo primo, colossale romanzo, La porta delle lacrime (Mondadori, pagg. 688, euro 22), in cui evita l’ingenuità attraverso la passione.
Dottor Verghese, lei non sembra disincantato verso l’umanità, come lo era il dottor Céline. Diversamente dalla tradizione dei medici-scrittori, pare un ottimista...
«È il mio realismo che mi rende ottimista. Negli Stati Uniti, quando parlo di morte, tutti mi guardano con incredulità, tutti i pessimisti, intendo. Il fatto che sottolineo un’ineluttabilità per ciascuno, però, non dovrebbe togliere nulla al mio lavoro di medico. Mettiamola in poesia: se la rosa non morisse mai, la sua bellezza diventerebbe noiosa. Pochi di noi colgono senza piangere la bellezza dell’appassire. È una mancanza di realismo ottimista».
Però tutti rimangono affascinati da quel cinico del Dr. House.
«La medicina ha perso la sua innocenza, questo è chiaro. Soprattutto negli Stati Uniti, dove è diventata un’industria da tre trilioni di dollari. La medicina che racconto nel mio romanzo, invece, ambientato in gran parte in Etiopia, dove sono nato da genitori indiani nel 1955, cerca di vendersi meno come stregoneria, anche se i pazienti poveri - in La porta delle lacrime come nella realtà - cercano lo stesso in essa, come gli spettatori del Dr. House, una risposta miracolosa. Di natura solo palliativa, nel loro caso specifico. Ad ogni modo sono per una medicina umanistica e anche per una tecnicista, ma mai prese singolarmente. La fiction estremizza troppo questi due modi».
Ma come si spiega il successo delle medical fiction in tv e nell’editoria?
«Col fatto che non sono reali. Illudono parecchio. Quando mi hanno chiesto se potevo scrivere una puntata del Dr. House, mi sono procurato i Dvd della serie per farmi un’idea, ma non sono riuscito ad andare oltre al primo. Mia moglie è testimone, continuavo a interrompere ogni scena gridando: non è reale, non è possibile!».
Lei è ottimista pure per la riforma che sta tentando Obama?
«Non è una riforma ideale, non sarà una panacea, sette presidenti hanno tentato prima di lui di fare qualcosa in questa direzione. Ad ogni modo, speriamoci. Come medico incontro molti malati cronici: sono almeno il 60%. L’ultima cosa che vorrebbero, le assicuro, è essere curati sul genere Dr. House o in una situazione di tagli economici.

Quando si spogliano davanti a me percepisco tutto il loro affidarsi e la loro esigenza di rispetto. La porta delle lacrime, nonostante sia un romanzo conflittuale, di desiderio mimetico - la storia di due gemelli e di una stessa donna - è il contrario di E.R. e delle sue beghe».

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