Cultura e Spettacoli

Biasi, il mite artista ammazzato a sassate

Il 20 maggio 1945 un gruppo di uomini, arrestati due settimane prima con l’accusa di essere fascisti, viene trasferito dal carcere «Piazzo» di Biella ad Andorno Micca. Lungo la strada (non ci sono automobili e lo spostamento avviene a piedi) il gruppo è fatto oggetto prima di insulti e sputi, poi di una gragnuola di sassi. Una pietra colpisce alla testa l’ultimo della fila, che cammina a fatica perché è malato. Muore così, a sessant’anni, Giuseppe Biasi, uno dei maggiori artisti sardi del Novecento, amico di Sironi e di Wildt, frequentatore negli anni Venti della cerchia di Margherita Sarfatti, pittore e colorista raffinato, ma anche protagonista, intorno alla rivista L’Eroica di Ettore Cozzani, del rinnovamento della xilografia in Italia.
La morte di Biasi è, se non andiamo errati, il fatto di sangue più grave avvenuto nel mondo della pittura dopo il 25 aprile. Ma andare errati in questi casi è facile, perché di notizie come queste si ha una conoscenza scarsa e lacunosa. Di Biasi, per fortuna, è disponibile una eccellente monografia della casa editrice Ilisso, uscita in occasione della mostra al Vittoriano di Roma del 2001, ma, per esempio, il più prestigioso repertorio biografico degli artisti italiani oggi in circolazione scrive solo che «perse tragicamente la vita nel trasferimento dal carcere di Biella ad Andorno Micca». Quasi si fosse trattato di un incidente d’auto.
Altri episodi drammatici del dopoguerra non mancano, nell’universo dell’arte. Che si sappia (ma, come abbiamo già detto, si sa ben poco) il futurista Antonio Marasco fu condannato alla fucilazione per collaborazionismo e scampò fortunosamente all’esecuzione. Mario Sironi stava per essere ucciso da un presidio di partigiani il 25 aprile, ma fu salvato da Gianni Rodari, che faceva parte di quel gruppo e l’aveva riconosciuto. A processi di epurazione furono sottoposti in molti, tra cui Arturo Martini, al quale fu tolta la cattedra di scultura all’accademia di Venezia. «L’epurazione lo aveva stroncato. Per guardar la gente faccia a faccia beveva dieci aperitivi prima di ogni pasto e consumava un tubetto di simpamina al giorno. Si sentiva demolito» ricorda il suo amico Orio Vergani. Altri, come Amilcare Rambelli o come il romano Cipriano Efisio Oppo, segretario della Quadriennale, ebbero lo studio devastato e le opere distrutte. E a loro si potrebbe aggiungere Arturo Tosi, al quale bruciarono la casa con tutte le carte e gli acquerelli.
Tuttavia con nessuno il destino si accanì come con Biasi, che pure (quale sia stata la sua fede politica) in tutta la vita non aveva fatto altro che dipingere. Giuseppe Biasi era nato a Sassari nel 1885, figlio di un famoso matematico di origine veronese, che da giovane era stato garibaldino. Già al liceo Biasi aveva cominciato a farsi notare, pubblicando vignette sui giornali umoristici della città, e nel 1909, a soli ventiquattro anni, era stato invitato alla Biennale di Venezia. Nel 1915 parte volontario per il fronte, dove viene ferito. Alla fine della guerra si trasferisce a Milano, e qui la Sarfatti, che aveva precocemente scritto di lui nel 1917, gli fa conoscere gli artisti del «Novecento». Nonostante questi appoggi, nel 1924 Biasi lascia la città e parte per l’Africa, dove rimane fino al 1927. Subito dopo ritorna in Sardegna, continuando a dedicarsi a una pittura carica di tensione cromatica.
Nel 1942 viene chiamato a Biella per realizzare un grande mosaico per il santuario di Oropa. Avrebbe dovuto rientrare a Sassari poco dopo, ma la difficoltà del viaggio in tempo di guerra lo induce a fermarsi.

Senza sospettare quello che sarebbe avvenuto.

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