Nelle stesse ore, laltro ieri, in cui Steve Jobs della Apple presentava al mondo liPad - attesissimo tablet-pc molto charmant con cui è possibile scaricare da internet centinaia di libri in formato digitale e portarseli sempre con sé, a letto come in barca a vela - lAssociazione Italiana Editori, in cordata con le sue omologhe di Germania, Austria e Svizzera, depositava per la seconda volta (la prima fu nel settembre scorso) presso la Corte di New York una serie di opposizioni legali al progetto di Google Books di digitalizzare lintero patrimonio librario dellumanità e di pubblicarlo sul web. Nello stesso giorno si consumava così, in modo postmoderno e indiretto, lennesimo scontro tra due opposte visioni della cultura.
La class action «editori statunitensi versus Google Books», vertenza legale collettiva a cui si sono aggiunte in corsa associazioni di editori di mezzo mondo, compresa lAie, tiene banco da tempo e tutto lascia prevedere che assumerà dimensioni ottocentesche, con stanze piene di faldoni e avvocati che inverno dopo inverno scalpicciano nel fango fino in tribunale, a spulciar cavilli. Chi si oppone, dunque, alla realizzazione via web del sogno millenario di una biblioteca universale? Chi invece ci guadagna? È una lotta tra vecchio e nuovo, oppure una mera questione di ridistribuzione di futuri introiti?
«Noi non siamo contro a priori - ci dice Marco Polillo, presidente dellAssociazione Italiana Editori - ma Google Books ha accelerato le sue operazioni seguendo il principio: cominciamo a fare il più possibile, poi vediamo che tipo di problemi possono sorgere. In pratica, è quasi come non prendere in considerazione lesistenza del diritto di autore. La prima decisione della Corte di New York ha raccolto alcune delle nostre ragioni, ma ora si pongono questioni tecniche che non si possono lasciare irrisolte. Altrimenti, lasceremmo in mano a Google Books autori che da noi sono protetti da copyright. Il vero problema è che il diritto dautore americano ha avuto in passato regole diverse da quello europeo, stabilito dalla Convenzione di Berna. Fino agli anni Ottanta se un editore italiano non voleva che un editore statunitense pubblicasse senza pagare un libro prendendolo dal suo catalogo, doveva macchinosamente registrarlo presso il Copyright Office di Washington. LAmerica si è poi adeguata alla Convenzione, solo che Google Books sembra voler dire: possono esserci ancora numerose eccezioni e falle, sfruttiamole. Per esempio, sulla base dellultima decisione della Corte potrebbe essere digitalizzato un libro del 1975 di un autore italiano ancora vivente, magari incluso nel registro del Copyright Office, ma proprio per questo passabile di essere equiparato a un autore inglese. Per il resto, non ci opponiamo alla digitalizzazione, anche se personalmente preferisco leggere un libro di carta, che posso lasciar cadere sul mio petto in spiaggia, quando mi addormento, senza rimanere ustionato. Cosa che capiterebbe invece con un reader di e-Book».
Di parere diverso è Riccardo Luna, direttore di Wired, che nellultimo numero ha pubblicato un articolo di Sergej Brin, uno dei fondatori di Google, intitolato Lasciate che i libri vengano a me. «Forse alcuni editori non hanno ancora capito quanto possono guadagnare dal progetto di Google Books, anche se io penso che in fondo a guadagnarci è tutto il mondo: intere biblioteche di libri dimenticati che nessuno leggerebbe vengono rimesse in circolazione da Google Books, creando conoscenza. E facendo comunque maturare dei soldi. Infatti, chiunque ne possegga i diritti può reclamarne in qualsiasi momento il saldo, e in qualsiasi momento può chiedere di essere tolto dal web. In exergo al Manifesto del pubblico dominio che circola in Rete cè una frase di Victor Hugo che condivido molto: Il libro, in quanto libro, appartiene allautore, ma in quanto pensiero appartiene al genere umano.
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