Cultura e Spettacoli

BIENNALE D’ARTE

da Venezia

Si comincia malissimo: l’imprevisto sciopero dei vaporetti paralizza la Laguna costringendoci a un’assurda camminata sotto il sole di mezzogiorno. Dopo aver imprecato in tutte le lingue del mondo si arriva distrutti ai Giardini; le brutte sorprese continuano con un’installazione di pali della luce sbilenchi, autrice la marocchina Latifa Echakhch, che accompagna il visitatore all’ingresso della mostra. Le brutture continuano con la scritta cubitale «Illuminations» di Josh Smith, e ci chiediamo perché la linda facciata del palazzo della Biennale debba essere ogni volta presa d’assalto da imbianchini di ogni tipo mascherati da artisti concettuali con la benedizione dei curatori.
Poi, per fortuna, la musica cambia e l’ingresso, addirittura, solenne. I tre capolavori del Tintoretto, annunciati da Bice Curiger come il punto di partenza della sua Biennale, si impongono maestosi nel salone d’onore, ridicolizzando al confronto qualsiasi opera contemporanea, soprattutto i piccioni del tassidermista Cattelan che danno l’idea di una trovatina. Vien da pensare, se l’arte classica fosse allestita nei musei del presente, il divario risulterebbe ancor più profondo, almeno in Italia.
Dopo tanto tempo il punto di forza della mostra è, sorprendentemente, ai Giardini, quasi che uno spazio più asettico e regolare, meno invadente, esaltasse il lavoro di fino della direttrice. Qui vi sono le opere più belle e gli artisti più convincenti. Meravigliano, soprattutto, i recuperi di personaggi ritenuti a torto marginali, come Jack Goldstein, scomparso nel 2003, di cui si rivedono i dipinti tratti da fotografie di fenomeni naturali catturati nell’imminenza dell’avvenimento, e un breve film ottenuto ancora con effetti di luce. Particolarissima la riscoperta di Lynn Foulkes, pittore folk californiano acido e corrosivo. C’è quindi l’omaggio postumo a Sigmar Polke, le sculture e il video del duo elvetico Fischli&Weiss, il fotoreportage del Sudafrica di David Goldblatt, inserito in uno di quelli che la curatrice chiama «parapadiglioni», ovvero spazi concepiti da artisti per ospitare altri artisti.
Non stupisce più di tanto che a brillare siano soprattutto i «classici contemporanei», ovvero quegli autori attivi da diversi decenni che rappresentano più una sicurezza che una novità. Molto meno convincenti i giovani, inconsistenti e manierati anche nella scelta di quei media che oggi vanno di moda, il collage, l’installazione audio dove non c’è nulla da vedere, il rumorosissimo ma vintage filmetto in super 8. La palma del lavoro più scarso va ex aequo all’italiano Norma Jeane che ha lasciato un blocco di plastilina rossa a disposizione del pubblico per farci qualsiasi cosa (prevedibili le scritte inneggianti al nuovo sindaco di Milano) e l’ipertrofico wall paper fotografico di Cindy Sherman, non ancora finito di montare, che la stessa artista osservava poco convinta del risultato.
La sezione dell’Arsenale, di norma la parte più graffante, scivola via rapida in lavori sfibrati che si somigliano più o meno tutti. Molti di questi sembrano tentativi, avanzi di qualcosa o maquette di operazioni future, a conferma che l’arte oggi flirta soprattutto con il mondo del design e dell’architettura. Se negli anni precedenti gli stimoli più interessanti giungevano dai Paesi dell’Estremo Oriente, il nuovo decennio segna un punto a favore di Israele, per quantità e qualità dei suoi progetti artistici.
Grazie a un’organizzazione impeccabile, che ci consente per la prima volta di poter vedere la mostra senza file, giungiamo al fondo delle Corderie, ed ecco, imprevista, la sorpresa per cui, si, è valsa davvero la pena scarpinare fin qui senza vaporetto: l’Arsenale si chiude con due capolavori destinati a segnare la storia dell’arte nel 2011. Il primo è la gigantesca copia del Ratto delle Sabine del Giambologna realizzata in cera dallo svizzero Urs Fischer. All’apertura della Biennale la candela è stata accesa e quest’opera in breve si trasformerà in massa informe fino a sciogliersi del tutto, ricordando la nostra transitorietà su questa terra, arte compresa. In ultimo The Clock di Christian Marclay, allestito come un cinema, che ribalta a oltre quarant’anni di distanza la teoria dell’invisibilità filmica di Andy Warhol. Si tratta di un’operazione in tempo reale, 24 ore su 24, dove il momento della finzione coincide con quello in cui stiamo vivendo. Guardiamo l’orologio, sono le 16.15 e nello stesso istante in un’inquadratura di un qualche film gli attori recitano in perfetta sincronia.

Non è più l’identificazione con la vita reale ma l’apoteosi della fiction, e come ombre ci passano davanti Gregory Peck e Tom Hanks, Bette Davis e Dustin Hoffman scavando negli stati più reconditi della nostra memoria dove ognuno di noi ha collegato la propria personale emozione di un istante che valga la pena di essere vissuto.

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