BIFO «La sinistra smetta di rincorrere il liberismo»

Parla Franco Berardi, il leader del ’77 bolognese: Cofferati? «Un caso umano». Prodi? «Un curatore fallimentare». I riformisti? «Sono dei controriformatori»

«Un rosso vessillo nell’aria fiammeggia/e in mezzo una scritta vi luccica in ner». I versi del Pascoli anarchico fanno bella mostra sul sito Rekombinant, il crocicchio di adunanze digitali che è un po’ la casa virtuale di Bifo, al secolo Franco Berardi, istituzione della rivolta che l’anno prossimo festeggia il trentennale: il mitico Settantasette e soprattutto il miticissimo Sessantasette bolognese, Radio Alice aperta chiusa riaperta richiusa, gli scontri studenteschi, la contestazione al sindaco comunista legalitario Zangheri, i caroselli della polizia, le autoblindo in centro. Cioè il Settantasette «che ha sdoganato anche i tuoi futuristi», nota compiaciuto mentre mostra la traduzione finlandese di un suo saggio all’ospite che è arrivato con la speranza di uscire da casa Berardi con un titolone: «Il creativo del ’77 bolognese: con Prodi è peggio del fascismo». D’altronde non era stato Bifo, l’anno scorso, nel pieno della sua guerra contro Sergio Cofferati, zangherista di ritorno, a denunciare i rischi autoritari del prodismo alle porte? E invece. E invece leggete.
Cominciamo dalla sua guerra totale contro Sergio Cofferati. Prima sul manifesto del 22 ottobre scorso: la legalità di Cofferati è quella «delle ruspe e del lavoro nero, degli affitti esosi e del disprezzo per i lavoratori». Poi su Liberazione del 27 dicembre: «La tragedia bolognese», scritto proprio così: la tragedia, «ha un contenuto di premonizione, parla dell’alternativa che si prepara dopo il 9 aprile». Fino a denunciare il «Milosevic a Bologna», lo stalinismo «sempre in agguato». E a lanciare la scomunica che ha fatto saltare più di qualcuno sulla sedia: se questo dev’essere Prodi «quasi quasi mi tengo Berlusconi».
Berardi, lo ripeterebbe?
«No, e per una ragione molto banale: un anno fa pensavo che Cofferati rappresentasse un problema politico di rilievo nazionale, oggi m’accorgo invece che si tratta di un caso umano, di un pover’uomo non troppo competente di questioni locali, che non si potrà mai trasformare in un “modello” di governo».
Anche il leader dei Cobas, Piero Bernacchi, ha tirato fuori il rischio che con l’Unione si realizzi «un berlusconismo senza Berlusconi».
«Dissento su questo punto dal mio amico Bernocchi. Berlusconi, da un lato, è stato la definitiva distruzione di ogni possibilità civile nel Paese, e dall’altro un modo originale, italiano, di interpretare il neoliberismo e le politiche monopolistiche delle grandi aziende private. Negli ultimi anni il patrimonio dello Stato è stato regalato ai “cugini dei cugini”... Per una volta mi trovo d’accordo con Eugenio Scalfari: l’Italia non c’è più».
Non le farà piacere, ma Luca Cordero di Montezemolo ha espresso un concetto analogo: ci sono gli italiani, non c’è l’Italia.
«Il governo Berlusconi ha portato il Paese sull’orlo del fallimento. È stato venduto il futuro, perciò se adesso le cose vanno male non possiamo prendercela con Prodi che, tutt’al più, potrebbe essere un buon curatore fallimentare».
A un movimentista come lei, che effetto fa la mobilitazione della sinistra radicale delle ultime settimane, le contestazioni al ministro del Lavoro, viceministri e sottosegretari in corteo, l’insoddisfazione per un governo che non esce dalla Nato, difende Israele e non punisce troppo la borghesia?
«Ripeto: non possiamo prendercela con Prodi. I suoi margini di manovra sono troppo ristretti perché possa salvarci dall’abisso. Se io rimprovero qualcosa a questa sinistra, tanto per intenderci, non è la gestione della finanziaria, ma il fatto di non avere il coraggio di pensare un nuovo modello sociale, libero dal predominio dell’economia di profitto. Ma per far questo l’attenzione va spostata verso l’Europa».
Dopo la sua sortita del «quasi quasi», il Riformista le ha risposto: «I conti degli anni Settanta non sono ancora saldati». Per comprendere ciò che succede oggi a sinistra dobbiamo tornare agli autonomi che nel 1977, a Roma, cacciano Luciano Lama dalla Sapienza?
«È vero, i conti non sono saldati perché è questione di visioni del mondo. I cosiddetti riformisti - controriformatori per la verità - pensano che il mondo non può essere governato che da un principio di competizione, accumulazione e profitto. Ma se il paradigma è quello della crescita, l’Europa è destinata a perdere di fronte a colossi in espansione come l’India e la Cina, a meno che non si portino i salari europei a 60 dollari al mese... Le cosiddette “due sinistre” non sono divise da problemi contingenti e superabili. La sinistra controriformista è il partito del conformismo e della subalternità culturale, pessime qualità intellettuali. L’altra è il partito dell’alternativa. Uscire dal dogma liberista, questa è la via dell’alternativa: la crescita economica non può essere il criterio unico di decisione. La società non più al servizio dell’economia. L’economia al servizio della società. Ma questo non è possibile nei limiti di una politica nazionale».
Vuol dire che andare al governo serve a poco?
«Se continua a pensare in termini “italiani”, la sinistra è fottuta. Per liberarci dai dogmi liberisti e occidentalisti occorre spostare l’iniziativa al livello europeo. Facciamo l’esempio dei precari, che certo non sono un problema solo italiano. Si tratta di una forza lavoro ad altissimo capitale intellettuale e a bassissimo salario. Per la sinistra riformista, l’Europa deve sfruttare questi poveracci in nome del dogma della crescita. Per me vanno valorizzati, perché spesso il precariato è la forza lavoro dell’innovazione e della ricerca, che in Italia è sprecata e in Europa non sarà valorizzata fino a quando saremo sudditi dei ragionamenti monetaristi per cui l’economia è più importante della società. Occorre un’Europa che metta al primo posto la società, che aiuti a emergere e affermarsi il lavoro cognitivo, ad esempio mediante il basic income».
E chi lo paga il reddito minimo?
«Le banche europee, stampando denaro. Si ricordi che il denaro è una menzogna, a volte anche buona, per carità, ma è solo uno strumento di simulazione. Si può usare per favorire il profitto e la rendita finanziaria, oppure si può usare per dare respiro all’innovazione sociale».
Non c’è una contraddizione tra invocare l’intervento pubblico assistenziale, da un lato, e predicare l’antagonismo, dall’altro?
«I precari anticipano la catastrofe dell’Occidente e al tempo stesso la possibilità di apertura di una nuova prospettiva sociale. Oggi abbiamo una conflittualità potenzialmente esplosiva, come si è visto in Francia l’anno scorso, ma nessun orizzonte di vera alternativa».
Abbiamo appena citato un po’ di manifestazioni «toste». Sono perdite di tempo, allora...
«Queste mobilitazioni non hanno respiro strategico. In questo momento non c’è un vero “movimento”. Il movimento, me lo lasci dire, è morto il 15 febbraio 2003, alla conclusione delle grandi manifestazioni contro l’intervento militare in Irak. In quel momento si è chiuso il ciclo cominciato nel 1999 con il Social Forum di Seattle, che ha rappresentato su scala globale la consapevolezza di “un’altra possibilità” che non si è concretizzata né a livello sociale né a livello istituzionale. Dobbiamo aspettare che maturi il trauma della guerra».
Sembra una dichiarazione un po’ diciannovista.
«Scherza? Dal 2001 l’Occidente è stato trascinato in due guerre catastrofiche. La guerra contro il Terrore è persa: quella in Irak lo sanno tutti, quella in Afghanistan è questione di tempo. Per fortuna, la sensazione che la guerra è persa si sta diffondendo a livello popolare. Siamo già nel 1989 dell’Occidente. Prepariamoci. Lenin diceva “trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria”, noi dobbiamo dire “trasformare la guerra delle corporation in autonomia sociale dal fallimento liberista”.

Resta la rabbia per quel pezzo di classe politica che qualche anno fa gridava “siamo tutti americani”. Ora farebbero bene, tutti, a dimettersi in massa».
Lo gridava anche qualcuno che oggi fa il ministro.
«Dovrebbero essere i primi a dimettersi».
(5. Continua)

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