Sembra che una clinica statunitense, la Fertility Institute di Los Angeles, specializzata in gravidanze artificiali, si stia indirizzando verso la «maternità estetica», ovvero il nascituro secondo i gusti dei genitori. Lo vorremmo biondo, lo vorremmo bruno, di carnagione chiara, gli occhi azzurri oppure verdi, cose così, insomma... Nel giro di un anno, promette il dottor Jeff Steinberg, fondatore della clinica in questione, il primo bambino «su misura» potrebbe essere pronto, e il condizionale è d’obbligo perché, stando sempre alle sue dichiarazioni, «il risultato non è certo» e magari tu avevi ordinato una bambina mora e ti ritrovi un maschietto albino... Ma, si sa, il cammino della scienza è fatto di esperimenti, e poi un dottore non è mica il padreterno.
Dalle notizie di agenzia, la tecnica di base per arrivare al «prefabbricato» non sarebbe nuova: si chiama Pgd, diagnosi genetica pre-impianto, e permette di prelevare alcune cellule dagli embrioni già fecondati, ma non ancora impiantati nell’utero e analizzarne il profilo cromosomico alla ricerca delle indicazioni dei geni. Nel caso in questione, par di capire, la possibile selezione non verrebbe fatta in funzione della sanità dell’embrione, ma sulla base del sesso o dei colori e ci fermiamo qui perché la scienza non è il nostro forte, fatichiamo a districarci fra cellule, cromosomi eccetera e scrivendo ci siamo già addormentati.
Dice il dottor Steinberg che è «tempo di estrarre la testa da sotto la sabbia e avventurarci su vie inesplorate. Non si tratta di una strada pericolosa, ma piuttosto di un sentiero non ancora battuto, a lungo ignorato dalla scienza», e sarà senz’altro vero. Solo che, si sa come si comincia e non si sa mai dove si andrà a finire e spesso lo spirito faustiano che anima gli scienziati fa venire in mente quella battuta di Woody Allen: «Ogni volta che sento la musica di Wagner mi viene voglia di invadere la Polonia».
Una delle poche gioie dell’invecchiare consiste nel sapere che non vedremo che cosa la modernità ha in serbo per il futuro: liofilizzati al posto degli agnolotti di nostra madre, spiagge e mari artificiali al posto di quelli veri, novantenni con le facce da ventenni, bambini selezionati, appunto, come quando si va dal concessionario auto: me lo faccia con la testa-tettuccio apribile, cerco il modello con gobba-zainetto incorporato, lo vorrei con entrambi i sessi, è più pratico, è possibile ordinarne uno che sappia già parlare inglese appena nato?
Si dirà che si esagera e che in noi alberghi lo spirito reazionario di chi pensa che il progresso sia sempre e comunque un regresso...
Abituati alle critiche ci prenderemo anche questa senza protestare, ma è chiaro che il discorso, se si avesse veramente la voglia di affrontarlo, è più complesso e ha a che fare con un’idea della vita dalla quale l’uno dopo l’altro vorremmo far scomparire quegli elementi che in fondo le davano un senso: lo scontro fra le proprie ambizioni e aspirazioni e i nostri limiti, l’esaltazione spesso delle nostre imperfezioni, che divenivano un modo d’essere e di comportarsi, l’innamorarsi di chi solo ai nostri occhi era la perfezione fatta femmina, l’invecchiare, il soffrire e naturalmente il morire.
Ciò che sempre più si impone è una logica dei desideri e dei diritti in cui non c’è solo spazio per quello, non si sa se più pretestuoso, presuntuoso o ridicolo, che ci vorrebbe felici per decreto-legge, ma una sorta di imperativo categorico grazie al quale essere preservati dal male, dal brutto, dalle responsabilità, dai doveri. Dall’accettare e amare un figlio, insomma, per quello che è...
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