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Il bisogno del nemico

Il bisogno del nemico

Osservando da lontano quello che sta succedendo al G-8, nei campi palestinesi in Libano, a Gaza col lancio di missili contro Israele, ma anche in Israele stesso, la biblica massima «non c'è nulla di nuovo sotto il sole» potrebbe essere sostituita da un'altra: c'è qualcosa di nuovo, anzi d'antico: il bisogno del nemico. È difficile pensare che dalla riunione del G-8 - operativamente inutile come tante altre riunioni dei «grandi della terra» - possa scaturire una nuova guerra fredda.

Non c'è più scontro di ideologie e in epoca di globalizzazione, i «modelli di sviluppo» dell'Est e dell'Ovest tendono a rassomigliarsi. La pressione di problemi ambientali, della sicurezza anti terrorista, della conquista dello spazio lo impone checché ne pensino i governanti. C'è un bisogno di creare quadri nuovi di cooperazione. Diversi dalle vecchie alleanze, non hanno precedenti e debbono essere in parte inventati con uno spirito nuovo ancora carente nelle dirigenze politiche. A questa mancanza viene in soccorso la presenza di un nemico. Si tratta di un punto di riferimento ostile e coesivo che potrebbe essere utile alla Comunità europea per traghettare una struttura burocratica multinazionale e un antiamericanismo poco coesivo in una struttura confederale attiva. Il bisogno di affrontare nuovamente un nemico all'Est potrebbe facilitare questa evoluzione da molti invocata.

Lo richiede la necessità di elaborare una nuova Costituzione; lo richiede il nuovo presidente della Francia desideroso di liberarla da vecchie pretese di grandezza passata e impaziente di offrirle un ruolo internazionale nuovo: lo richiede l'irritante dipendenza dal petrolio di una Russia che ricalca orme storicamente note all'Europa. Una Russia diventata più irritata e irritante a causa dell'allargamento della Comunità verso l'Est ma meno pericolosa dell'imperialismo sovietico, non disponendo più della clientela dei partiti comunisti nazionali. Passando a tutt'altro settore geografico, a quello dei campi palestinesi nel Libano, la rilevanza del ruolo del nemico diventa qui ancora più evidente. In questi campi il debole governo libanese sta conducendo una guerra per procura contro la Siria, guerra che non avrebbe mai osato di lanciare contro Damasco opponendosi al suo lungo braccio, gli Hezbollah. Il premier Seniora, così pavido nei confronti del Partito di Dio pro siriano, non ha esitato a lanciare - con notevoli perdite - un esercito organizzato su basi confessionali contro le milizie pro siriane nei campi profughi affiancandolo alle strutture militari locali palestinesi legate a Al Fatah dell'Olp (una decisione che un pochino ricorda quella del governo piemontese di mandare i bersaglieri a combattere nella guerra di Crimea contro i russi).

Questa decisione che potrebbe servire a far guadagnare punti, sul piano internazionale, tanto a lui che al capo teorico di Al Fatah, il presidente senza Stato, Mahmud Abbas, nello scontro con il premier del governo inesistente di Hamas-Hanyeh. Una lotta fratricida per la creazione di una Palestina che incomincia a sviluppare speranze nella presenza nell'intervento di una forza internazionale sul suo suolo. Evidente è anche il ruolo del nemico a Gaza. La striscia di sabbia sovrappopolata serrata fra Egitto, Israele e il mare, che evacuando unilateralmente, Sharon sperava di veder trasformata in embrione di Stato palestinese con cui trattare si è invece trasformata in un poligono di tiro di missili contro Israele.

Questi rappresentano forte elemento di disturbo umano per Israele, una violazione quotidiana della sua sovranità ma restano privi di scopi e valore strategici. Ne hanno invece molti tattici nei confronti dell'Autonomia palestinese nella misura in cui servono a distogliere l'attenzione dalla tensione fra le fazioni palestinesi e rappresentano una maniera per dare prestigio a bande armate. Quanto a Israele, sono ormai decenni che trae vantaggi dalla presenza del nemico. Lo si è visto anche recentemente quando la stampa - non solo israeliana - ha lungamente discusso se la guerra del 1967 di cui ricorre il 40° anniversario - è stata o no una vittoria sprecata. Quello che questa guerra ha messo in luce sono le ricadute positive che grazie al tentativo nasseriano di distruggere o per lo meno soffocare Israele, hanno avuto sul consolidamento interno, sull'integrazione di un milione di immigranti dalla Russia e sul conseguente sviluppo economico e tecnologico dello Stato d'Israele. Ruolo che paradossalmente continua con la guerra civile palestinese, intervenuta - come lamenta giornalmente la stampa araba - ad alleviare Israele dal peso dei suoi sforzi per liberarsi da una situazione coloniale in cui i suoi avversari - arabi e non arabi - vorrebbero inchiodarlo per sempre. Se si volesse trovare un filo conduttore fra queste situazioni così differenti occorrerebbe cercarlo nella carenza di senso politico d'identità. Un concetto che tragicamente l'Europa ha identificato (e persino voluto esportare nelle sue dipendenze coloniali) con l'idea altrettanto pericolosa - perché imprecisa, esclusiva, alimentata da miti, passioni - del territorio, della lingua e della razza.

L'Islam radicale cerca oggi di ristabilire, monopolizzandola, la sua idea di identità politica religiosa alimentando e giustificando con essa il suo espansionismo. Non è un fatto nuovo. Il Cristianesimo lo ha sperimentato creando molte tensioni al suo interno come al suo esterno nonostante la vocazione di operare per diffondere un messaggio di amore e l'appello all'«imitazione di Dio», per il bene dell'individuo e dell'umanità.

Il bene - dice un saggio indiano - esiste e cresce nel mondo nella misura in cui siamo capaci di godere della gioia altrui; il male, invece, esiste e cresce nel mondo nella misura in cui siamo capaci di godere della gioia nostra.

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