Sono passati dieci anni dalla morte di Harald Szeemann, il più visionario e imprevedibile tra i curatori d'arte contemporanea, l'unico assieme a Okwui Enwezor ad aver diretto sia Documenta sia la Biennale di Venezia. Lo ricordo incuriosito tra gli stand della Fiera di Basilea a prendere al volo l'artista dell'ultima ora, quello che magari non conosceva ma lo aveva colpito per chissà quale motivo. A due lustri di distanza, dunque, proprio mentre si celebrano il trionfo dell'arte come grande mercato globale, le nuove forme di investimento, l'emulazione del jet set internazionale, c'è da chiedersi se vi sia ancora spazio per quelle forme creative irregolari, non addomesticate, che vanno controcorrente e senza una logica apparente. Che pagano il prezzo del proprio isolamento, non senza orgoglio. Attori di una possibile messa in scena dell'utopia, proprio come avrebbe voluto Szeemann.
Non si tratta qui di fare l'apologia del naïf né dell'outsider che si muove deliberatamente oltre il sistema, perché sarebbe una posizione ingenua e infine inutile. Se si parla di arte italiana degli ultimi cinquant'anni, ci si accorge che il panorama è stato dominato o dai gruppi (Arte povera, Transavanguardia) o dai movimenti (concettuale, in ogni sua forma). Il punto non è dipingere quando tutti fanno video o installazioni poiché la scelta di un materiale non è qualificante in quanto tale; ma scegliere quegli argomenti, muovere quelle questioni culturali a cui in pochi si dedicano. Poi la storia si spinge a recuperi prodigiosi, «riabilitando» figure a lungo sommerse o ignorate - oggi per esempio vanno di moda pittura analitica, concettuale segnico, un certo tipo di fotografia, eredità degli anni '70 - e rilanciandole sul mercato, mentre altri artisti attendono una più completa rivalutazione. Accadrà per tutti? Non è detto. Il dubbio, legittimo, è che l'essere entrati fuori tempo, o troppo presto o troppo tardi, sia una disfunzione che condiziona il giudizio sull'opera.
Prendiamo il caso di Irma Blank, le cui performance nelle ultime aste stanno facendo parlare di un nuovo caso sul mercato. Nata a Celle in Germania nel 1934, dal 1955 opera in Italia, con un primo soggiorno in Sicilia (si dice che abbia conosciuto il suo futuro marito in treno e per questo abbia deciso di fermarsi qui da noi). Fin dall'inizio della carriera si dedica al recupero di un segno primordiale; i cardini teorici del suo lavoro sono la musica intesa come ritmo e la scrittura. Nel 1974 lavora sulle Trascrizioni senza codice dove la scrittura stessa diviene gesto esaltante per svuotarsi di ogni significato. A fine decennio, tra 1977 e 1978, viene invitata prima a Documenta poi alla Biennale di Venezia, nel 1979, lascia il bianco e nero, inserisce il colore, dapprima il rosa quindi il blu: è l'epoca dei grandi cicli Dal libro totale o Blu Carnac , esposti al Pac di Milano nel 1992, importante e ultima grande antologica nella sua città d'adozione. Poi un lungo silenzio, nonostante abbia continuato a lavorare, e oggi la riscoperta di un'artista sì irregolare ma più che altro per il metodo rigoroso e l'antispettacolarità. Particolari oggi apprezzati.
Quella di Claudio Costa è stata invece una storia agli antipodi; nato a Tirana nel 1942, morto a Genova vent'anni fa, nomade e anticonformista, ha fatto del viaggio il motivo centrale della sua ricerca. Tra la Liguria e Parigi studia la figura di Ezra Pound e sperimenta la terracotta che considera materiale primario. Dopo soggiorni in Marocco, Germania e Nuova Zelanda, affascinato dai maori, fonda il Museo di antropologia attiva teorizzando, siamo nel 1977, il work in regress , ovvero il ritorno alla fase primigenia dell'essere. Il curatore Manfred Schneckenburger ne intuisce la visionarietà e lo invita a Documenta 6, nel 1977, in un tempo in cui le grandi mostre non erano ancora irreggimentate. Dal 1988 lavora al tema della follia all'ospedale psichiatrico di Genova Quarto e fonda l'Istituto per le materie e le forme inconsapevoli che si occupa di sviluppare la creatività con l'aiuto dei pazienti e dei reclusi. Il suo lavoro è ricco di umanità, si serve di ready made e di oggetti trovati. Fosse arrivato oggi godrebbe di un successo strepitoso, ma l'isolamento e lo spirito ribelle non lo hanno mai aiutato. Gli ultimi cicli di opere, inizio anni Novanta, sono tra i più belli e prendono spunto dai suoi viaggi in Africa.
Nella Torino degli anni Ottanta, dove continua a dominare l'Arte povera, esordisce uno scultore sorprendente, dal gusto dark ed esistenziale, mosso dalle inedite questioni ambientali, il cui universo è popolato da giganteschi insetti kafkiani e dove non c'è spazio per alcuna forma di consolazione. Sergio Ragalzi, nato nel 1951, alla sua prima mostra importante al Castello di Rivara si fa fotografare con una maschera antigas sul volto. Nel 1984 arriva a Roma nella galleria di Fabio Sargentini, che ne apprezza il talento e lo sostiene nonostante i temi scottanti in epoca di grande ottimismo e il colore nero assoluto e senza speranze: sagome emblematiche di missili e bombe, coppie umane ridotte a relitti e ombre, inquietanti metamorfosi tra uomini e animali. Con assoluta coerenza, senza mai un cedimento né una concessione, Ragalzi da oltre trent'anni va avanti per la sua strada. Rischia di essere considerato un isolato ma prima o poi il mercato lo premierà come uno degli artisti più originali, seppure crudo e spietato.
Destino condiviso con quello che, insieme a Ragalzi, si può ritenere il migliore scultore italiano degli ultimi tempi. Ma qui c'è una morte tragica e prematura a interrompere il cammino al talento di Giacinto Cerone, nato a Melfi nel 1957 e scomparso a Roma nel 2004. Un fisico gracile e provato dagli eccessi. Ceramica, gesso, plastica ma anche disegno, in un vorticoso esplodere incontrollato della materia.
È stato forse il più credibile interprete della teoria dell'informe, un'arte maleducata e sfrontata apprezzata da galleristi importanti quali Valentina Bonomo, Maurizio Corraini, Emilio Mazzoli e dalla più attenta critica romana. In una rara intervista aveva detto: «Vorrei che la gente applaudisse davanti a un'opera, non di certo davanti a una mia». Meriterebbe davvero di non essere dimenticato.
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