Bob Wilson: morto il regista che ha reinventato il teatro

Ha rivoluzionato il mondo dello spettacolo integrando recitazione, musica, danza e architettura

Bob Wilson: morto il regista che ha reinventato il teatro
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Si fa presto a dire scandalo. Oggi che, a teatro come nella vita, non ci si scandalizza più di nulla, sono buoni tutti. Ma cinquant'anni fa il primo ad osare cose che sulla scena ancora nessuno era riuscito neppure ad immaginare, scatenando clamori colossali almeno quanto i successi, fu lui: Robert Wilson, detto Bob, scomparso ieri ad 83 anni (era nato a Waco, in Texas, nel 1941) in un sobborgo di New York. Fu lui, il primo ad inventare spettacoli che non erano spettacoli, ma esperienze; che non raccontavano storie ma proponevano performances; che non erano prosa, né canto, né danza, né arte visiva; ma tutto questo assieme, in un mix d'imponderabile, sconcertante originalità. Prima caratteristica dello stile visionario di questo artista: la dilatazione dei tempi. Lo spettacolo che lo rivelò nel '76, Einstein on the Beach (concepito assieme a Philip Glass) durava cinque ore e mezza. Civil Wars dodici; Ka Mountain addirittura 24, ma moltiplicato per sette: durava infatti una settimana, e venne allestito in cima ad una montagna in Iran.

Lungi dall'annoiare, questa assurda lentezza (che pare nascesse dagli esercizi teatrali slow motion con cui, da bambino, era guarito dalla balbuzie) inizialmente irritava. Ma poi grazie alla seconda caratteristica del suo stile - una visionarietà estetica d'impareggiabile bellezza, a metà fra il sogno e la fiaba, costruita con musica, luci, corpi - finiva per intrappolare l'attenzione del pubblico. E quindi definitivamente la soggiogava. Inutile tentare di descriverne l'esperienza: gli spettacoli di Bob Wilson non si potevano raccontare. Anche per questo erano rari, richiestissimi e irripetibili. "Chi ha ispirato il mio stile? si chiedeva in un'intervista al Giornale - Il grande coreografo George Balanchine. E poi i film in bianco e nero anni '30 e '40, girati in Germania e ad Hollywood". Gli artisti di teatro, spiegava, "sono costruttori di tempo e di spazio. Così il mio lavoro è sempre basato su qualcosa che sento, o che vedo. Sentire e vedere: questi gli elementi primari in cui io comunico".

In Italia il suo nome esplose al Festival di Spoleto, nel 1974, con lo scandaloso A letter for the queen Victoria. Scandaloso perché, interpretato da un ragazzino autistico di 14 anni, con la regina Vittoria non aveva assolutamente nulla a che fare, ma sedusse lo stesso gli spettatori sopravvissuti alle sue sei ore di durata. Al festival tornò nel 2013 con The Old Woman, che interpretato dal mito della danza Mikhail Baryshnikov e dal divo di Hollywood Willem Dafoe, inaugurava la serie di spettacoli in collaborazione con grandi star (altri ne fece assieme a Brad Pitt e a Lady Gaga) paralleli a quelli con attori "presi dalla strada". Letteralmente. Cioè autentici senzatetto. "Ma che si tratti di un divo o di un barbone diceva - chiunque sia in confidenza con se stesso può entrare in relazione con un pubblico".

Una cosa sola si può rimproverare, a questo genio folle e visionario. Aver incolpevolmente generato miriadi d'incompetenti imitatori. Che sfruttando la solo apparente indecifrabilità dei suoi spettacoli, ne producono di propria. Narcisistica, autoreferenziale e, ahimè, mediocrissima.

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